“Fuori, nel croccante prato marzolino, alonata dai fasci di luce che spiovono dai lampioni, tra capannelli di ragazzi in blazer blu che risalgono il vialetto rifinendosi l’alito a colpi di mentine, assapora una breve epistassi.”
Così si conclude il primo capitolo del romanzo di David Foster Wallace La scopa del sistema, con questa distanza contemplativa su una ragazza adolescente che affronta le conseguenze fisiche di un estremo disagio sociale. Le opere di Wallace racchiudono una letteratura unica nella sua feroce postmodernità, flussi di parole che nell’abbondanza includono tutta l’impotenza nel riuscire a comunicare sentimenti e sensazioni sinceri nel mondo contemporaneo. Se nel cinema americano dovessimo ricercare una nicchia ideale dove le immagini proseguono il lavoro crepuscolare portato avanti da Wallace indicheremmo senza dubbio le opere di Charlie Kaufman.
In Sto pensando di finirla qui Kafuman ripercorre i punti più profondi della sua poetica e li concentra in un film allo stesso tempo personale e universale, che racconta un presente ormai completamente dismesso, in cui anche il dolore più acuto diventa percorribile in ogni senso, perché plasmato e appiattito dal conformismo dello spettacolo. Il viaggio in macchina di andata e ritorno di Lucy e Jake, una giovane coppia americana che percorre una tormenta di neve per andare a trovare i genitori di lui (o anche di lei?), diventa un nucleo di alienazione e incomunicabilità in cui ogni parola viene spinta al massimo fino a schiantarsi contro il buio, dove ogni citazione si risolve nella sua inutilità.
Kaufman dopotutto è sempre stato consapevole che il problema più serio della modernità, e allo stesso tempo il più sottovalutato, è la marcescente dominazione dell’apparenza su ogni origine sincera, in cui tutti i propositi di progressione vengono annichiliti nella cristallizzazione e resi innocui, immobilizzandoli o fraintendendoli. Epigoni volontari di questo concetto sono del resto tutti i dialoghi del film, che raggiungono la loro estremizzazione più radicale durante il viaggio di ritorno dei due protagonisti, in cui è ormai chiara allo spettatore la biunivocità dell’esistenza tra Lucy e Jake, vittime di una realtà talmente amorfa da essere in grado di appartenere a più singolarità contemporaneamente.
Di fatto, il citare apertamente nel film un’opera come La società dello spettacolo di Guy Debord diventa, in questo meccanismo al massacro, un atto che ancora prima di nascere prevede le sue conseguenze diegeticamente ed extradiegeticamente: da una parte per i due protagonisti l’essere consapevoli di abitare un mondo di plastica non li salverà da un’implosione che deflagrerà nei minuti finali in un atto di triste fusione tra reale e finto (nell’accezione più posticcia del termine), dall’altra per il regista il tentare di sottolineare quanto sia grave, opprimente e totalizzante questo non riuscire più a scindere l’immagine dal potere, non potrà mai completamente tramutarsi in un viatico per far comprendere l’urgenza del problema. Per questo in molti punti del film la tematica del giudizio viene più volte a galla (soprattutto nei tormentati atti di autocoscienza di Lucy), perché Sto pensando di finirla qui diventa quasi un’entità a se stante, consapevole del suo triste destino di essere incasellata in una delle tante opinioni sulla vita, piuttosto che nell’idea di realtà contemporanea per eccellenza, in tutta la sua paradossale evanescenza.
La fitta tormenta di neve quindi avvolge Lucy e Jake sempre, in una serie di freddi luoghi trasformati in non luoghi, che siano essi la vecchia casa della loro infanzia duplicata, che fonde il tempo e lo spazio in un unico caos esistenziale, o uno strano bar alla fine del mondo in cui prendere un gelato circondati dal freddo pungente dell’inverno, o ancora un vecchio liceo in cui il cinema entra dentro la storia in un consciamente asfissiante gioco metacinematografico. Questa coppia atavicamente disfunzionale vaga come alla ricerca di un impossibile equilibrio, quell’equilibrio che i personaggi di Kaufman, da Essere John Malkovich e Il ladro di orchidee, fino ad arrivare a Synecdoche, New York e Anomalisa, ricercano invano, senza rendersi conto di ciò che il mondo invisibile al di là degli occhi cerca di comunicare.
Con poche speranze che questo possa un giorno avvenire, le non-storie di Charlie Kaufman raccontano/mostrano/declamano che per avere un vero bilanciamento nel presente, non bisogna altro che restare coscienti dell’incosciente, dell’Altro che giace sotto di noi, dei mille volti che interpretiamo, in un universo senza comparse in cui però il principale fraintendimento è quello di diventare semplici figuranti della nostra vita, proprio a causa di quell’autoreferenzialità che ci porta a diventare solo un riflesso, un’estensione, una copia, un film.
Proprio come i periodi lunghi tre pagine di David Foster Wallace, dove la forza dello stile diventa la denuncia di un contenuto mancante nella realtà che si racconta, anche le citazioni massive, i dialoghi a pioggia, e le identità traballanti dei personaggi dei film di Charlie Kaufman riescono a portare alla luce un’arte che marcia al di là dell’immagine, dove la parola diventa allo stesso tempo una r/esistenza e una presa di coscienza della resa della sostanza alla violenza e all’invincibilità della forma, confondendoci a tal punto da farci sanguinare il naso.