Ha ragione Pier Maria Bocchi quando, scrivendo di Matthias e Maxime su FilmTv, invita a dimenticare il cliché critico dell’enfant prodige, in relazione al cinema di Xavier Dolan, non tanto per la maturità dell’opera in sé – come sostiene Bocchi – quanto per finirla di considerare vergine rivelatore un regista che ha debuttato nel 2009 e che ha imposto la fissità degli schemi come chiave per interpretare il suo cinema.
Matthias e Maxime diventa l’occasione definitiva per attribuire a Dolan i suoi legittimi meriti. Egli non è un autore; mai realmente sovversivo, il regista canadese è in realtà uno dei più godibili – nonché prolifici – artigiani della regolarità filmica. Dolan dirige una delle sue opere più robuste grazie alla continuità con la quale subordina l’emozione (sic!) alla tecnica e alle ossessioni, congiunte in un abbacinante ossimoro.
Così come lo sbeffeggiato La mia vita con John F. Donovan era tributo alle estetiche del cinema mainstream anni ’90, di cui Dolan è debitore, Matthias e Maxime si trasforma in pretesto per ricordarci come nelle sue opere il lavoro sulla tecnica e sulla ripetizione sia in grado di ammaliare più dell’esplosione narrativa in sé.
Nel film il conflitto tra gli eponimi deflagra solo dopo le imposizioni del regista, che, ancora una volta, scardina il suo cinema e lo riconduce alle consuete ricorrenze: i rapporti convulsi e pervicaci con le figure materne, il citazionismo a buon mercato («I am ready for my close-up» quando si parla di cinema), l’allargamento a 65mm quando il conflitto, finalmente, esplode. Ma esplode sul serio?
Di certo appare evidente come il “limbo” evocato dal cortometraggio della sorella di uno dei due personaggi principali, nell’opera di Dolan, resti ancorato al titolo del metafilm: la ricerca laboriosa, ambigua e dolente di Matthias e Maxime l’uno verso l’altro resta come omaggio a una sceneggiatura abbastanza brillante, più che alle evoluzioni del film stesso.
Interessante – e contestabile – è l’associazione, ancora di Bocchi, dell’opera di Dolan a Quando hai 17 anni di André Téchiné. In quest’ultimo la macerazione del conflitto e dell’agnizione definitiva è percettibile, lacerante e infine lisergica, mentre in Dolan è un aggraziato palleggio che dietro agli sguardi ora intensi ora in cagnesco dei protagonisti (Dolan attore, interprete sopraffino di sé, incarna l’aspetto più vivo del film) nasconde soprattutto l’energia ipertrofica del suo realizzatore. E non è per forza fatto negativo.
È difficile, ormai, affezionarsi ai personaggi di Dolan, o banalmente identificarsi nei loro dolori; più semplice e intuitivo, invece, è provare a capire quali meccanismi, quali giuochi, quali espedienti andrà a individuare per sorprendere e farsi dire “bravo”. Non è un vezzo, il suo; il cambio di formati non è un capriccio, è una decisione politica che non va contestata.
Nessuno vuole separare gli effettivi meriti di Dolan dai suoi limiti; sarebbe bello, tuttavia, generare un immaginario consolidato in cui viene celebrato come fosse un Andy Tennant più sperimentale, uno Schumacher più fluido, piuttosto che un autore da ricoprire di allori quando piace o di sberleffi, quando delude. E andrebbe, in via definitiva, allargato il bacino critico incapace di ossessionarsi su altri cineasti trentenni che non siano lui.