Climb my son, go and take a lofty view
From on the ladder of an education
You can see to help your Indian Nation
Then reach, my son, and lift your people up with you

 

L’orizzonte rovesciato si intreccia con il profilo di una montagna, mentre le parole scorrono sullo schermo solcandone gli angoli in un flusso continuo. Il paesaggio presto cambia forma, in un’esplorazione visuale imprevedibile e saturata. La musica accompagna a ritmo cadenzato le divagazioni di una camera a mano solitaria, che rievoca il mito di una pianta che fa rinvenire chi ha perso i sensi, o osserva le piccole figure dei passanti decomporsi in fasci di luce multicolore.

Il cinema di Sky Hopinka è un’esperienza sensoriale immersiva attraverso cui misurare la propria capacità di perdere il sentiero, e al tempo stesso di ritrovare ciò che è tuo e non è mai andato perduto. Cresciuto a Portland, Oregon, Hopinka proviene dalla tribù Ho-Chunk del Wisconsin, e ha preso in mano la videocamera per la prima volta mentre iniziava a studiare la lingua nativa del suo popolo.

Dando vita a uno stile singolare e sfaccettato, che utilizza un’incredibile varietà di materiali, dalle immagini del suo vagare lungo i paesaggi americani agli archivi audio, dalla poesia ai racconti orali, Sky Hopinka ha realizzato un gran numero di cortometraggi e istallazioni attraverso cui ha aperto una riflessione intima ed emotiva sulla questione identitaria del popolo nativo che sfugge alle rappresentazioni nostalgiche o idealizzate. Nel continuo rinnovarsi del metodo di regia, il suo è un cinema della parola come principio vitale e trasformativo, nonché creativo di ciò che è il mondo per noi, e dei confini, seppur sempre ambigui, che riconosciamo attraverso il linguaggio.

Il suo primo lungometraggio, maɬni – towards the ocean, towards the shore, che segue due amici, Jordan e Sweetwater, nella ricostruzione ideale e figurata del mito indigeno della reincarnazione, è stato presentato in anteprima al Sundance Film Festival 2020.

Abbiamo incontrato il regista Sky Hopinka per parlare di resistenza creativa, di linguaggio salvifico e dei miti sopravvissuti nell’America contemporanea.

Quando hai iniziato a fare film?

Ho iniziato ad avvicinarmi al cinema intorno al 2011, iniziando a documentare e a fare foto ai miei amici. Dalle foto alla prima videocamera, ho imparato piano piano a montare. Il cinema ha rappresentato per me da sempre una possibilità di raccontare le storie delle persone indigene, da un punto di vista indigeno e senza sentirsi legati a quelle forze istituzionali che ti dicono come dovrebbero essere raccontate le vicende dei nativi. Volevo andare oltre alla narrativa del trauma che spesso caratterizza la rappresentazione del cinema indigeno contemporaneo, che tratti di povertà o di abuso di sostanze o del sistema scolastico nelle riserve, che, per quanto importanti, non sono che una piccola parte di ciò che si può raccontare sulla vita delle persone indigene.

Avevi dei riferimenti cinematografici quando hai iniziato?

Uno dei primi film che mi hanno aperto la mente è stato Werckmeister Harmonies di Bela Tarr. Credo che quando non hai a disposizione una cinematografia nazionale consistente, nativo americana nel mio caso, quello che cerchi è piuttosto un riferimento formale nello stile di alcuni registi. Ad esempio, un altro film importante per me è stato Lo zio Boonmee che si ricorda delle sue vite precedenti di Apichatpong, soprattutto per la sua capacità di trattare il tema del mito e della reincarnazione in maniera realistica. È molto forte e d’impatto scoprire un certo modo di fare cinema, soprattutto per chi come me non aveva riferimenti nel cinema del proprio popolo, ed è anche uno spunto di riflessione su cosa può significare crearne uno e per interrogarsi su come potrebbe essere.

Dopo molti cortometraggi, il tuo primo lungometraggio maɬni towards the ocean, towards the shore ha avuto la sua anteprima al Sundance 2020. Come hai scelto il soggetto del film e come hai conosciuto i protagonisti?

La scelta del soggetto in realtà risale a quando ho iniziato a fare film. Ho conosciuto Jordan, uno dei due protagonisti di maɬni, nel 2013, recitava nel mio primo cortometraggio. Anche Sweetwater recitava in uno dei miei corti, Anti-objects, or Space Without Path or Boundary. Entrambi questi film trattavano il tema del chinuk wawa, la lingua della mia tribù. Il chinuk wawa ha rappresentato una fonte di ispirazione nei miei film precedenti, per cui una volta che mi sono chiesto di cosa volessi parlare girando il mio primo lungometraggio, è stato naturale tornare a quei primi film, e di conseguenza ai loro protagonisti.

Qual è stato nel caso di maɬni il tuo processo creativo?

Per quanto riguarda la costruzione del film, mi ci è voluto circa un anno e mezzo. Più che altro ho girato qua e là, raccogliendo materiale senza avere una chiara idea di come le immagini sarebbero poi state costruite insieme. È quello che ho sempre fatto anche per i cortometraggi, girare molte ore e collezionare materiale, pensando a paesaggi, occasioni, persone da includere nel film. La struttura è sempre arrivata in un secondo momento, al montaggio. Una cosa che volevo fare girando il mio primo lungometraggio era provare a incrementare la pratica cinematografica dei miei corti, senza dover imparare da capo un nuovo modo di fare cinema, né dover pensare a un lungometraggio come a qualcosa di al di fuori dalla forma sperimentale del corto. Ho cercato di rimanere fedele a ciò che conoscevo e con cui ero a mio agio in termini formali, ma l’ho presa anche come un’occasione per sperimentare e per indugiare in sequenze più lunghe, cosa che nei corti mi era difficile fare. In particolare, ho ridotto le manipolazioni e gli effetti post-produttivi che erano preponderanti in alcuni dei miei film precedenti.

Un elemento comune tra i tuoi corti e il tuo film desordio maɬni è un certo senso di mistero e di esplorazione dellignoto. La sensazione di fronte ai tuoi film è influenzata dalle omissioni, e dallincapacità di raggiungere piena comprensione di ciò che mostrano, forse nel mio caso anche per il punto di vista di una persona europea.

Credo che anche molti americani proverebbero un senso di mistero nel vedere certe cose dei miei film (ride). È un modo indigeno di capire i diversi paesaggi e cosa rappresentano. Il North-West è molto tipico, con le montagne e gli oceani e gli alberi che sono i simboli visivi di quel luogo ma anche di tanta parte della cultura statunitense. Come posso filmare nella maniera che sia in grado di esprimere la mia particolare relazione con quel paesaggio, quelle persone e quella cultura? Rimanere fedele a questo punto di vista crea una sorta di mistero, ma spero che questo sia sottolineato con la consapevolezza di un gesto creativo e autoriale da parte mia, che possa guidare lo spettatore nell’esplorazione di questi diversi aspetti e nella comprensione di quei luoghi e di ciò che rappresentano. Il modo in cui le persone native sono percepite è radicato negli stereotipi storici o nella visione idealizzata della nostra cultura, ma c’è molto altro. Mostrare diversi movimenti e incontri, o semplici divagazioni di pensiero, mi risulta di gran lunga più espressivo delle questioni che voglio trattare, in una modalità più specifica per me di quanto non sarebbe cercare di spiegare o insegnare qualcosa al pubblico.

Il tuo modo di affrontare la questione linguistica è cambiato nel tempo. Hai cominciato a imparare il chinuk wawa mentre muovevi i primi passi nel cinema. Adesso parli chinuk wawa e hai deciso in maɬni di dare la stessa dignità alla lingua nativa e allinglese con luso dei doppi sottotitoli.

In effetti, la prima volta che ho filmato qualcosa era la mia lezione di lingua chinuk wawa. Se penso a come si è evoluto il mio rapporto con la tematica linguistica, in questo film per la prima volta sono io a parlare la lingua, ed è stato un po’ strano, quasi un rischio per me. Nei miei primi film portavo lo sguardo sulla lingua in se stessa, come viene tradotta, che tipo di linguaggio viene utilizzato, anche nello studio delle registrazioni d’archivio sul linguaggio del mio insegnante di chinuk wawa come in Anti-objects. Con l’ultimo film ho sentito di voler dare spazio alla lingua senza imporre i miei pensieri o le mie divagazioni intorno al significato del linguaggio e alla semiotica degli spazi, semplicemente parlando la lingua io stesso, ed è stato un gesto che mi ha reso in qualche modo vulnerabile. All’inizio il film doveva essere parlato solamente in chinuk wawa, ma quando si è aggiunta Sweetwater, che non lo parla, mi sono chiesto se insegnarle velocemente la lingua, ma mi è sembrata una soluzione ingenua. Ho deciso quindi che non c’era bisogno che lei parlasse chinuk wawa, considerato anche il fatto che la maggioranza delle persone indigene negli Stati Uniti impara l’inglese come prima lingua. Esiste un senso di vergogna legato al fatto di non conoscere la lingua della propria tribù, e anche rispetto all’essere madrelingua inglese. Volevo affrontare la questione in una maniera neutrale in cui sia il chinuw wawa sia l’inglese, e quindi Jordan e Sweetwater, potessero avere uno spazio per esprimere loro stessi. Mi interessava anche osservare come i due potessero capirsi nonostante la diversità linguistica.

Il paesaggio è uno dei soggetti principali nel tuo cinema. Che significato ha per te?

Mi piace girovagare e guidare per lunghe tratte da solo, è il mio modo di cercare di comprendere gli spazi. Mentre attraverso i paesaggi cerco di ricostruire una sorta di topografia o una storia dei luoghi, ma anche di immaginare cosa significa vivere questi luoghi oggi. Mi interessa vagare in paesaggi diversi, che siano una strada o una foresta, un centro commerciale o un sentiero, qualunque spazio liminale. L’idea dei non-luoghi di Marc Augé è affascinante per osservare come la colonizzazione e l’oppressione hanno colpito alcune persone in diverse aree, che assumono poi questa caratteristica di non permanenza in cui tutto sembra essere transitorio. Mi trovo in Wisconsin adesso, la terra d’origine della mia tribù, ma è come se non mi sentissi stabile in questo luogo. Cerco nei miei film di replicare questo senso di transitorietà.

Come ti senti oggi rispetto al termine etnopoesia spesso utilizzato per definire il tuo stile di regia?

Sento che è un termine che mi ha aiutato soprattutto all’inizio nel cercare di collocare il mio lavoro, anche rispetto al cinema etnografico tradizionale. Ho visto l’etnopoesia come una categoria alternativa alla forma etnografica tradizionale, ma mi sono posto delle domande anche su questo. Mi ha aiutato a guardare a me stesso, ma allo stesso tempo il suffisso “etno” ancora il mio lavoro ad un approccio che non sento del tutto mio. Ho incominciato a rifletterci negli ultimi anni, specialmente con il film maɬni ma anche con i recenti corti Lore o Fainting Spells, in cui mi sono focalizzato più sulla poetica e sulla relazione tra me e i materiali d’archivio che ho utilizzato, come ad esempio la costruzione di un mito, che è una forma di partecipazione non etnografica ma piuttosto di attiva creazione culturale.

Guardando alle proteste in corso negli Stati Uniti mi è tornato in mente il tuo film Dislocation Blues. I social media hanno cambiato il nostro approccio visivo, sempre più alimentato dalle immagini amatoriali e dalla ubiquità degli smartphone, ma allo stesso tempo frammentato. Come hai affrontato il rischio di utilizzare un registro troppo emotivo nel riprendere le proteste di Standing Rock del 2016 e come hai scelto il tuo punto di vista?

Sapevo di voler filmare Standing Rock evitando qualunque strumentalizzazione o sensazionalizzazione della violenza che stava avendo luogo. È interessante vedere ora come l’attivismo e le proteste stanno esplorando l’uso di tali strumenti nel denunciare l’abuso di potere e la violenza della polizia, che deve essere esposta in qualche modo. Ma la comunità colpita, quella nera in questo caso, non ha bisogno di vedere quel video di nuovo. Allora la domanda diventa: qual è l’audience? Chi sta guardando? Chi deve vedere ciò che è mostrato? E come questo gesto del mostrare può effettivamente produrre un cambiamento, e allo stesso tempo diventare espressione di ciò che accade all’interno di questi movimenti? Nel caso di Standing Rock e con Dislocation Blues volevo focalizzarmi sull’accampamento e sulle decisioni che si stavano prendendo al suo interno. “Decolonizzazione” è un termine utilizzato spesso per indicare ciò che le persone indigene dovrebbero fare oggi, ma è anche un concetto teorico. Per questo ero interessato nell’osservare la sua applicazione pratica nella vita reale. Questa era la mia intenzione, ma rispetto a come le persone percepissero la camera la domanda che mi sono posto è stata quale fosse effettivamente il mio ruolo. Con Cleo Keahna, l’attivista che ho intervistato nel film, abbiamo parlato principalmente di questo, anche in riferimento ai social: l’idea di essere presente. Sentendomi sopraffatto dal ruolo che i social media hanno avuto nel portare la gente a Standing Rock, ho cercato di esprimere la mediazione dello schermo in termini di presenza e partecipazione. È interessante quel “telefono senza fili” descritto da Cleo, e il modo in cui le storie che hanno raccontato su Standing Rock sono diventate la vera storia, ma cosa è andato perduto in questa trasmissione?

Filmare è un atto politico per te?

Sì, credo che, qualunque cosa faccia o decida di filmare, il cinema è un gesto politico o un atto di resistenza. Come ho detto, non voler fare film sul trauma o sulla povertà ma piuttosto sulla poesia e sull’amicizia di per sé è un atto di resistenza perché non è quello che vogliono sentire da noi. Nessuno mi sta chiedendo di fare film poetici su un mito o su una pianta che fa rinvenire quelli che perdono i sensi nella mia tribù. Fare tutto ciò senza chiedere supporto e senza chiedere il permesso è parte di tale gesto. Un’altra questione è che combattiamo tutto il tempo, ed è estenuante, perché questo tipo di trauma si insinua nel tuo corpo come una tensione che ti porti addosso. Ecco, io cerco momenti di sollievo da questa tensione, e cerco di farlo anche solo osservando come le diverse culture e le rispettive credenze esistono nel presente, che si tratti della reincarnazione per la mia tribù o solo dei pensieri di due persone nella foresta del NorthWest. Sono aperto alla discussione, ma questo tipo di gesti sono politici per me in molti modi diversi.

Stai lavorando a qualche nuovo progetto in questo momento?

Avrei dovuto lavorare a un nuovo film quest’estate, e ad alcune istallazioni multi-canale che per ora sono ferme. Ho intenzione di filmare nelle prossime settimane, e di raccogliere materiale per il nuovo film che sarà sui powwow, i raduni di nativi che si svolgono in tutto il paese. Non so ancora cosa ne verrà fuori, ma è questo a renderlo eccitante.