Le vertiginose immagini di apertura di I miserabili raccontano una Parigi – e una Francia – esplosive e frenetiche. La folla festante e unita non conosce barriere: celebra la vittoria della Coppa del Mondo 2018 contro la Croazia.
L’eccitazione, vettore legittimo, contagia le strade della capitale; il calcio si conferma, ancora una volta, lo specchio della contraddizione. La festa è trascinata verso l’Arco di trionfo, luogo magico per la percezione della città e al contempo nido di grida e proteste in relazione all’ultima cronaca (i moti dei gilet gialli).
Opera prima di Ladj Ly (già attore per Romain Gavras), che ha sviluppato l’idea a partire da un corto del 2017, I miserabili richiama il titolo dell’omonimo capolavoro di Victor Hugo. Senza esserne di fatto una trasposizione, quanto meno a livello strutturale: qui, seguendo il plot, abbiamo un agente di polizia (Damien Bonnard) alle prese con un incarico nuovo a Montfermeil, a circa 20 km da Parigi.
Le analogie con l’opera di Hugo resistono a livello morale: il viaggio dell’agente ai margini di una periferia arrabbiata, selvaggia e multiculturale si connettono alla rabbia e alla riflessione sull’umanità che nei secoli hanno consolidato la forza del romanzo di partenza.
Non ci sono Jean Valjean, Cosette o i Thenardier – sebbene le loro avventure siano descritte in località prossime a quelle del film. Nel testo di Ly irrompono personaggi inediti: il succitato agente, i colleghi dalla moralità ambivalente, una galleria di personaggi ai margini, dimenticati, “miserabili” poiché non riconosciuti, mai legittimati. ROM, immigrati di nuova e vecchia generazione, creature che rinunciano alla dignità trasversale accontentandosi di fortificare l’autorevolezza del proprio disagio.
Ly racconta un para-universo di gang in lotta tra loro che è frammentato, corruttibile e libero, dove la legge dell’energia è più autorevole di ogni forma di potere. Il regista edifica una serie di conflitti senza sentire la necessità di farli esplodere con una meccanica precisa. La rabbia dei personaggi, soprattutto di quelli più giovani, resta trattenuta, presidiata da una coralità che ne foraggia la latenza. È in questa resistenza alla deflagrazione che il processo di assimilazione a Hugo si fa completo: convergono in entrambi i testi il dolore, la repulsione verso l’ingiustizia, la convinzione dei propri limiti carnali.
Il Dio di Hugo ora segue crismi diversi eppure resiste sullo sfondo, quale testimone del proprio potere (l’unico potere possibile, peraltro) e delle faide intestine di questi nuovi dimenticati, tesi sulle barricate delle loro disgrazie («come ci si comporta nelle religioni è importante», recita un passaggio dell’opera).
Quello di Ly è un concerto di poliziotti, di rapper, di baristi e di circensi, dove il fumo è tangibile e non vezzo estetico per nascondere qualcosa, dove i droni sono gli strumenti di forza delle nuove repubbliche, dove la violenza è disordinata, complessa e imprevedibile nella sua esteriorizzazione.
Qualcuno sosterrà la presenza di ponti sottotestuali e narrativi tra il film e L’odio di Kassovitz, un paragone che giova poco a entrambi i testi, laddove il film del 1995 segue le geometrie e la rabbia di un decennio a oggi irripetibile. L’opera di Ly è, semmai, un’evocazione potente proprio del romanzo storico cui deve il nome, e cui dedica una poderosa citazione sul finale, sospeso tra azioni, scelte e lacerazioni inevitabili.
«Tenete presente, amici miei, che non vi sono né cattive erbe né cattivi uomini: vi sono soltanto cattivi coltivatori».