Miezz a via, miezz a via
This is where I wanna be
But I always have no fear
Boy, we come from Napoli
Il concetto di “cantabilità”, tipico della canzone popolare, viene definito da Ronald Barthes come “lo spazio modesto dei suoni che ognuno di noi può produrre, e nei cui limiti può fantasmatizzare l’unità rassicurante del proprio corpo”. Questa considerazione preliminare, tratta da L’ovvio e l’ottuso, viene citata in uno scritto che Giovanni Vacca ha dedicato alla produzione musicale di Lucio Dalla in collaborazione con Roberto Testori (BlowUp #264). Ne approfittiamo per rilanciarla, alla luce di quanto verrà esposto in questo articolo.
Sappiamo quanto una certa rivisitazione della musica neo-melodica sia tornata in voga fra le nuove influenze musicali. Credo che questa tendenza nasca dal desiderio di ristabilire un contatto infranto con il nostro presente, e in particolare con quel senso di appartenenza che vacilla nel momento in cui il mondo si è aperto ad una dimensione più ampia, dal respiro interculturale. La “canzoncina” pop ci permette di riacquisire, anche se soltanto momentaneamente (e forse, in maniera illusoria), quel senso di “unità rassicurante” che appartiene al proprio corpo, elevandoci moralmente nel gesto del canto. Il valore della “cantabilità” barthesiana non consiste però in un’elevazione che trasporta lo spirito a un livello superiore, ma in una più umile e rasserenante espressione di spensieratezza. Il semiologo francese prosegue la sua analisi specificando che il senso romantico del canto racchiude una sorta di godimento del “corpo unificato”. Poter cantare, infatti, è una funzione comune a tutti, e le sue proprietà ci permettono di comprendere come l’elevazione faccia parte della stessa unità fisica dell’uomo, e non a qualcosa di separato da esso.
Probabilmente una fra le ragioni per cui la musica melò è tornata in auge oggi consiste proprio in questo: un attrito dei sentimenti che prima ci spingono a voler fuggire lontano, ma subito dopo ci tengono coi piedi ancorati al suolo, a stare bene dove stiamo. E si tratta di una condizione psico-sociale tutt’altro che particolare: dal desiderio di costruirsi una nuova vita all’estero e subito dopo di riconsiderare quant’è bella la nostra terra (Rimini e Fiumicino, la Lambretta o il Viper, i maccheroni al pomodoro di mamma). Romanticismo, malinconia, senso di impotenza, mescolati al desiderio inappagabile delle cose semplici.
Il nome più in vista di questa giovane scuderia musicale si chiama Liberato. Il producer e cantante partenopeo costruisce, sulla tessitura elettronica dei suoi brani, testi che sono veri e propri melting pot linguistici, in cui il dialetto napoletano si fonde con forme lessicali inglesi basilari. Soffermarci sulla figura di questo produttore musicale ci permette di introdurre un altro personaggio chiave: colui che è riuscito a creare un’immagine riconoscibile e identificativa di queste canzoni. Si chiama Francesco Lettieri, probabilmente il regista di videoclip più interessante nel panorama italiano del momento.
Francesco Lettieri ha collaborato con la stragrande maggioranza dei cantanti indie italiani più in voga di oggi (Motta, Calcutta, Thegiornalisti). Per Liberato ha realizzato decine di video, piccoli ritratti adolescenziali dalla trama scarnificata ma densi di rimandi al mondo della cultura giovanile. L’assetto tematico e visivo si rifà dichiaratamente ai video di un gruppo french-house, i The Blaze. Ma questo fa parte del gioco: il videoclip è solo un piccolo tassello di un mosaico più ampio, intensificato dalla distribuzione della rete e frammentato nella sua logica unitaria. I videoclip fondano la loro autonomia nella rassegnata concezione di dover essere simili per forza a qualcos’altro, di non poter vantare quell’unicità che invece prova a guadagnarsi ogni opera cinematografica. Fondamentalmente, perché il videoclip è una produzione audiovisiva commerciale al servizio di qualcos’altro, ovvero della canzone. Ed è sotto questo aspetto che Lettieri ha saputo mostrare tutta la sua furbizia: mettendo in scena efficaci quadretti densi di emozioni adolescenziali, tematiche di genere esposte dai suoi protagonisti umili e “popolari”, rimarca ancora di più questo contrasto di asservimento e di sottomissione volontaria (inconsapevole, com’è la giovinezza). La canzone a questo punto non è più semplicemente illustrata, ma diventa un vero e proprio slogan generazionale. Sulla scia delle nuove tendenze “popular” dell’intrattenimento infatti, Lettieri si è lanciato nella realizzazione di una vera e propria “videoserie”, Capri Rendez-Vous, dove al substrato culturale partenopeo si è aggiunto quello cinematografico, seriale e fotografico. Un passo avanti per lui, e per la storia del videoclip italiano, nella direzione di quel mix di linguaggi che la cultura postmoderna ha sperimentato nell’arco degli ultimi trent’anni. Anche se l’esito è stato meno convincente delle prove precedenti, non si può non ammirarne la lungimiranza.
I videoclip di Lettieri sono sicuramente gli esiti autoriali più interessanti del regista. E si parla di “autorialità” proprio per la vocazione alla conoscenza del genere, del suo fecondo appropriarsene, in luce della svolta populistica del panorama culturale italiano. Il regista ritrae i suoi personaggi ponendosi al loro stesso livello, familiarizza con le forme più commoventi e comiche di una nuova generazione di italiani (Cosa mi manchi a fare); ripropone vecchie forme di linguaggio cinematografico – in 16mm – che risvegliano gli spiriti di un cinema popolare italiano perduto (Pesto, vero gesto di virtuosismo tutt’altro che presuntuoso e autoreferenziale) e rimaneggia quelle del nuovo documentario italiano (c’è qualcosa di Pietro Marcello in M’ staje appennemm’ amò?); si diverte e ci diverte con le più svariate e giocose formule visuali (Hai messo incinta una scema). Sembra che il videoclip sia la forma prediletta per riuscire a restituire quella dimensione “modesta e limitata” da cui poter far emergere l’unità rassicurante di cui parlava Barthes. Non a caso Lettieri sceglie quasi sempre l’opzione del ritratto: un piccolo frammento di vita, in cui la cornice diventa il perimetro modesto e limitato dei nostri schermi. Possiamo tenerli in mano, possiamo rivederli e riascoltarli al computer. Farli nostri, sentirli fisicamente vicini. I personaggi di Lettieri cantano assieme a noi, per la durata di una breve esibizione da karaoke familiare.
Purtoppo, il talento registico dei suoi video non è eguagliato da quello del cinema. Ai primi di marzo, durante i nostri giorni di quarantena e con le sale chiuse, è stato distribuito sulla piattaforma Netflix il suo prima lungometraggio, Ultras. La storia mette inscena il classico conflitto generazionale, dove i giovani componenti di un gruppo di tifosi, gli Apaches, provano a prendere il posto dei loro capi clan mentre incombe lo scontro decisivo fra napoletani e romanisti.
Intraprendiamo di nuovo la strada del ritratto, che per l’occasione ha il volto del noto attore Aniello Arena. L’impressione, più che altro, è che il film sia cucito su misura su di lui. Si affida troppo alla trama il compito di raccontarci quello che prima, con i suoi video, era riuscito a fare brillantemente solo grazie alle immagini. L’eroe che si ritira dalla scena, cercando di costruirsi una nuova vita, pare volersi sacrificare in nome di tutti gli altri personaggi immortalati a suo tempo dal regista. Il tutto suona un po’ programmatico, un po’ autoreferenziale. Si avverte comunque un tentativo deciso di non voler rendere una macchietta il suo personaggio. La storia d’altronde ci parla proprio di questo: di un uomo che vuole gettare la maschera con il quale è stato identificato finora. Ma questo tentativo suona quasi come un’imposizione, poco naturale e forzata. La tendenza che avvertiamo oggi al cinema è quella di viaggiare attraverso generi e categorie, anziché nella direzione di persone reali. Una sensazione che aveva trovato una sua forma precisa e riconoscibile nell’immancabile campo ristretto con cui venivano filmati i protagonisti dei videoclip. Adesso che si è alzato il livello (almeno, sul piano produttivo), sembra che si sia allargato anche lo spazio attorno ai personaggi. Lettieri fa fatica a contenerli e dirigerli, non c’è più un focus preciso sul quale concentrarsi quando si guarda il film. Troppi stimoli e poca chiarezza: da una parte l’ariosità tipica del cinema “da branco” alla Ragazzi fuori, ma dall’altra l’obbligo ingente di dover lavorare su un protagonista caratteristico, come insegna il più recente Garrone.
Mancano sostanzialmente la disinvoltura, oltre al desiderio di giocare con una materia duttile come le immagini. Non a caso, le scene più interessanti ripropongono alcune trovate già sperimentate in passato: filmati d’archivio fra stadi e risse (alcuni rigirati ad hoc) con accompagnamento dei Righeira, certi virtuosismi in ralenti e fumogeni, compreso il finale dronato sulla scogliera, sotto cui zampillano le note della colonna sonora del sodale Liberato. In sostanza, le scene in musica. Il resto del film zoppica come dopo un pestaggio. Se prima di trama potevamo parlare ascoltando i testi delle canzoni, e Lettieri riusciva a dargli una forma visiva, ribaltando i ruoli fra visivo e sonoro viene a mancare l’ispirazione più poetica. Paradossalmente, è il compositore ad essersi “liberato” dalla struttura della canzone pop, abbracciando quella meno rigida della colonna sonora ed uscendone fuori più maturo e sofisticato di prima.
C’è da ammettere che il film si presenta da subito come una produzione di puro intrattenimento, che si inserisce nel filone del cinema che ha nutrito la generazione del regista (la seconda metà degli ’80 e i primi ’90). Resta però l’amarezza di non aver potuto godere di qualcosa di più coraggioso, che rimarcasse il talento del regista. Forse abbiamo di fronte a noi un filmmaker che si trova a suo agio solo nella tessitura di una trama più fragile, che sa come maneggiare forme dalla fattezza più modesta e limitata, un tempo considerate persino più preziose. L’ansia da produzione (si potrebbe definire il limite di una società soffocata dall’ambizione e dall’edonismo mediatico) rischia di bruciare molti talenti.
Ultras è la conferma che il cinema, per continuare a restare vivo, non deve sottomettere i suoi valori espressivi a quelli meramente speculativi. Ma che so ‘sti tarantelle? Se non sarà possibile farlo attraverso i canali ufficiali, ne troveremo di nuovi. E siamo sicuri che gli ultras la penseranno come noi.