C’è del meraviglioso nel nuovo film di Alessandro Comodin. Non soltanto perché è proprio lo stupore – e con esso una sospensione del giudizio nell’immediato – la prima reazione che suscita la visione di I tempi felici verranno presto, uno dei rari film capaci di intessere una relazione con il soprannaturale a partire dagli elementi basici delle fiabe. Ma anche una narrazione che fin dall’inizio si palesa nella sua valenza autoriflessiva, mettendoci di fronte a un narratore che, come la Sherazade di Arabian Nights, porta un nuovo linguaggio, e con esso l’impossibilità di una riduzione semplicistica degli eventi misteriosi della vita.
Non deve sorprendere, quindi, che all’inizio di I tempi felici verranno presto si avverta una sensazione di deja-vu: due ragazzi, molto giovani, saltano giù da un muro, sono in fuga e, finalmente liberi dalle barriere che li opprimevano, attraversano il campo dell’inquadratura sfrecciando in un bosco che li nasconde e li accoglie. Di loro non sappiamo nulla. Sono quasi bambini dai volti imberbi, i loro abiti non lasciano dubbi sullo stato di prigionieri, evasi, i loro gesti raccontano la volontà di sopravvivere nonostante tutto. I giorni e le notti si alternano, la loro utopica fuga è presto ridotta a una parentesi, un anelito di libertà presto represso. L’essenzialità dell’incipit, che rimanda a Diamanti nella notte di Nemec, riconduce a una dimensione astratta in cui si apre un discorso sulla possibilità di formulare un racconto oggi. Non a caso è un vecchia storia di paese (raccontata da vari testimoni), che permette di mettere insieme le parti di questo film dicotomico, nel quale si succedono diversi personaggi. Dopo la fuga di Tommaso e Arturo, arriva Ariane, ragazza vissuta a lungo lontano, malata in maniera inguaribile, che torna dal padre e si immerge nella natura per affrontare la morte. Ma nel bosco c’è un lupo e i cacciatori sono pronti a riprendere il controllo della zona.
Come già succedeva ne L’estate di Giacomo, Comodin spinge i suoi personaggi in un percorso fisico, in questo caso un buco (che è anche un cunicolo e si trasforma in una caverna), da affrontare per poter accedere a un’altra dimensione: il fiume di Giacomo qui è una pozza melmosa dove finalmente qualcosa può accadere. Fuori da un controllo prestabilito, due corpi si avvicinano (in un’inquadratura che li tiene insieme nelle acque salmastre, che sembrano portare il contatto di uno sull’altra): si crea una tensione, avviene un piccolo scambio, qualcosa che è destinato a farli ritornare alla vita in maniera differente. La magia di varcare una soglia che solo l’occhio del cinema (nel movimento di camera che scruta un sottobosco fangoso che nasconde e svela il passaggio) sa creare, spingendoci a rompere schemi narrativi prestabiliti e a usare, in maniera rinnovata, un linguaggio troppo a lungo tenuto a bada da “sguardi educati” e compromessi.
La libertà cercata da Tommaso e Arturo, ribelli e lupi per una società che rifiuta il valore della diversità, è quella che esibisce Comodin nella sua ricerca estetica: un cinema in cui l’estrema sottrazione narrativa si coniuga con una consapevolezza estetica della “performance” della macchina da presa, i cui movimenti non sono mai pura estetizzazione ma vero e proprio racconto di quel “divenire” che è il fulcro del film. Non c’è nessuna risoluzione della vicenda (come non ci sono spiegazioni a darne il via), solo la parola nelle testimonianze di chi ha tramandato la storia di Dino Selva inquadra la narrazione, e il cinema ne sorprende il lato più materico e pulsante: un attraversamento di dimensioni o di piani che ci spinge – come fa il lupo con la bella fanciulla – in fondo al bosco della percezione, laddove è sempre più intricato e sempre più buio. Nessuno, del resto, sa se la fanciulla non è mai tornata perché ha scelto di vivere nell’oscurità (e di credere nel cinema più estremo) o è stata divorata dal lupo.