Alice Heimann scende con calviniana leggerezza le scalinate della nativa Lione, alla quale è tornata dopo anni di studi prestigiosi e viaggi formativi fuori dalla Francia. Pensa che il suo nuovo incarico negli uffici municipali della città abbia a che fare con le competenze pratiche acquisite, ma si sbaglia: in virtù di un curioso paradosso che è cifra saliente del secondo lungometraggio di Nicolas Pariser, la giovane non è chiamata a eseguire mansioni consuetudinarie, ma al contrario a creare spazi di pensiero. La ragione? Il sindaco Paul Théraneau, dopo trent’anni di politica attiva sul fronte socialista, ammette di essere spossato, in piena crisi di idee, e spera che sia proprio la normalista neoassunta, “filosofa” come un’etichetta di comodo immediatamente la riduce, a generare un nuovo ordine di pensiero per l’amministrazione da lui guidata.
Si apre così Alice e il sindaco, rohmeriano non solo nel titolo, apologo filosofico e commedia naturalistica in 35 mm con cui Pariser – dopo il paranoide polar d’esordio Le Grand Jeu (2015) – si conferma personalissimo autore, tra gli sguardi più curiosamente politici della sua generazione, capace di rielaborare con rarefazione codici e canoni tradizionali per indagare la crisi civica del contemporaneo. Che in questa sua opera seconda, decisamente dialogue-driven ma tutt’altro che statica, la crisi in questione non riguardi soltanto le maschere del potere ma la dimensione intima di una vocazione sempre più frustrata al bene comune, alla democrazia stessa, Pariser offre svariate prove di scrittura e regia, intuendo nella relazione platonica e quasi filiale tra i due protagonisti il nodo trainante di una storia giocoforza corale, dove una divertita galleria tipologica di personaggi infittisce tanto le dinamiche narrative quanto un complessivo senso di smarrimento intorno alla realtà, nell’incessante cortocircuito tra parole, idee e sguardi.
Attraverso le prove di Fabrice Luchini e di Anaïs Demoustier – quest’ultima premiata con il César a quasi un anno dalla presentazione del film alla Quinzaine des Réalisateurs – Alice e il sindaco si dimostra un progetto unico per libertà e intelligenza, intrecciando erudizione e comico con una sottigliezza che non diventa mai formula di se stessa o viatico giudicante. Nel suo smascherare con discrezione le infinite variazioni del linguaggio e il vuoto della comunicazione cui la politica ormai si è consegnata, la sintesi che il film opera è tanto originale quanto inimmaginabile in assenza di illuminate premesse produttive (in Italia, ad esempio, un progetto simile non partirebbe mai). Lo stallo che il racconto mette in campo è intergenerazionale, offrendo simultaneamente il ritratto di due solitudini, quella dei giovani intellettuali che non hanno chiaro il disegno della propria vita in relazione al proprio impegno o bagaglio, e quella dei veterani della cosa pubblica che al contrario non sanno più cosa dire a dispetto della loro posizione. Non c’è scontro, ma discussione, e forse ascolto che diviene reciproco arricchimento, anche quando la postura più sana da assumere, di fronte alla difficoltà di interpretare il contemporaneo e il compito della politica, potrebbe rivelarsi l’«I would prefer not to» dello scrivano di Melville.