Nella frotta delle cose, Dentro di te c’è la terra rivela una specie di segreta travatura, in cui corteccia, spina, cencio o pietruzza sono i paramenti di un cosmo vibrante, e per questo mai esauribile per mezzo della videocamera: l’apice della visibilitità coincide con un mancamento d’immagine. Nel nuovo film di Cosimo Terlizzi traspare soprattutto questo suo giuramento a una lucentezza che è tale proprio perché sa di doversi abbuiare a causa di ciò che il film è costretto a lasciare fuori, e per questo s’intravede appena: come una lucerna, ma già troppo annebbiata, e cocente. L’alba si occulta in un’altra alba, una vicinissima lontananza si accoda a ciò che continua a trattenere un poco d’aura, secondo quanto afferma Walter Benjamin: «Quando un uomo, un animale o un essere inanimato leva il suo sguardo sotto il nostro, per prima cosa ci attrae lontano; […] l’aura è il manifestarsi di una lontananza, per quanto vicina essa sia».

Spedisco a Cosimo un fascio di domande da frontiera, che del film fomenti proprio le lontananze, i rigiri, le ramificazioni più sepolte. In questo caso ancestralità non è un andare a ritroso, ma è un altro modo di precipitarsi attraverso il globo conservando nel proprio passo come un’obiezione, un andamento contrario: la rovina di un anticipo.

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Caro Cosimo, le figure del manifesto di Dentro di te c’è la terra volteggiano attorno a un ulivo secolare, centro bucato e vero e proprio asse del mondo che sembra grondare la materia arcaica del film. Il tuo cinema fa la tana in questo albero?

L’artista autrice del manifesto, la Contessa di Alicudi Schifanoia, ha dipinto in modo istintivo quelle figure. Si direbbero ex voto. Ha individuato come centro di tutto la tana, e intorno ha posto la costellazione di corpi, che è protagonista del diario. In effetti nel film si è trattato di scavare davvero, con lo strumento che è proprio dell’arte: uno strumento fluido, senza corpo. Probabile che sia la poetica. Non esistono però strumenti ideali o uno a cui ci si affeziona particolarmente. Anzi: la zappa è un limite, come la videocamera. Meglio che non si veda. Allora è il cane Remo a scavare la tana, e lì è il cinema. Bisogna assecondare la materia, che è parte della verità, ma se suona da sola non lo è affatto.

E infatti l’opera è un denso colloquio tra creatura e creatura, l’impegno di medicare -attraverso il cinema- una certa idea di farmacia terreste. Ecco allora l’uva e il fico, la quercia, l’agave, il carrubo. Il Bruco della pioggia. Ma anche le immagini dei guerrieri Kuru, che frugano nella terra il punto esatto nel quale ingravidarla con il loro sperma. Un film può abolire l’estinzione? Può essere limo fertile?

Devo rassicurarti come farebbe un padre a un figlio. Vorrei tanto che l’arte serva a questo e non solo a intrattenere o a stordire, che è già qualcosa. Quali sono le opere che ci hanno smosso e reso fertili di idee, di pulsazioni, di orizzonti? Non saranno per caso quelle che ci hanno anche un po’ annoiato? E al contrario non sarà la nostra ingordigia di emozioni forti a renderci sterili? Quei film scritti, troppo, dove si chiede un’emozione a tempo con chiusura risolutiva. Tutto ciò non ci rende assuefatti alla scoperta? Non è che l’arte debba ritrovare il suo tempo, guarda caso quello della terra? La natura stessa ha un intelletto! Mi piace molto il pensiero di Cicerone e di Giordano Bruno che associano la natura a Dio, come la mente di tutto e in tutto.

Questo quaderno d’immagini segue Dei, il tuo primo progetto di finzione, scritto -appunto- per il cosiddetto “grande cinema”. Quanto di quell’esperienza hai voluto trattenere con te? Quanto è stato travasato in Dentro di te c’è la terra?

Dei si sviluppa in una struttura classica: la sceneggiatura, la scenografia, le luci, i reparti, tutto poi nella rete di un tempo di produzione. Dentro di te c’è la terra è un’opera en plein air. Realizzata con una modalità libera, povera di mezzi. È ricerca pura e stesura su quel “quaderno d’immagini”, come hai scritto tu. Il filo conduttore è quel sacro che aleggia intorno a noi. Trovo più difficile tirar fuori qualcosa dalla materia dura, com’è il set cinematografico standard: una struttura che ti mette davvero alla prova. Probabile che sia io a vedere la gabbia in ciò. Per altri invece è un luogo sicuro, e semmai è fuori che è il caos. Sarà che dopo anni di ricerca sull’utensile e il contenuto credo di aver raggiunto una sorta di liberazione. Penso che l’arte, quella dei poeti che ci hanno davvero segnato, non si fidi del posto sicuro delle regole.

terlizzi2.jpgMa il video-diario, il cinema di ricerca, non può divenire esso stesso avamposto certo? Un luogo sicuro per il cineasta? D’altronde questo lavoro chiude una trilogia iniziata nel 2010 con Folder.

Essere nel processo artistico ti mette in uno stato di vulnerabilità e nello stesso tempo di potere. La strada potrebbe portarti, se necessario, in luoghi rischiosi (fisici o mentali) da dove non è detto che si riesca a tornare indietro. Se un tassello è stato posto, da quello bisogna ricominciare, ma potrebbe comunque capitare di aver posto l’ultimo tassello. Non credo che la mia modalità costituisca un luogo sicuro. Non mi fido e cerco di metterla spesso in discussione. Folder, L’uomo doppio e infine Dentro di te c’è la terra hanno in comune l’utilizzo di dispositivi leggeri e questo essere en plein air, ma gli strumenti sono utilizzati con sapienze differenti.

Ovvero? Parlami di queste sapienze.

Folder è quella cartella in cui archiviamo i nostri ricordi. Sono file di varia natura: mp3, foto, video, testi, presentati come le componenti di un puzzle da montare. In un diario non si omette quasi nulla. E se un dramma è avvenuto, questo caratterizzerà tutto l’umore del progetto. In Folder è l’identità a essere oggetto di indagine. L’identità in un momento storico di grandi spostamenti da una città all’altra, da uno stato a un altro e così da un genere a un altro, dove i nuovi dispositivi come Skype o le compagnie aeree low cost rendono le distanze più sopportabili. Folder è un viaggio dove i pezzi sparsi si ricompongono. L’uomo doppio si concentra sulla scritta “Distruggi il tuo Ego” già seminata in Folder. Parole scritte sul muro da Fabiana, un pezzo del mio cuore, prima del suo suicidio. Qui uso la mia voce come quell’io pensante, razionale, che nella quotidianità cerca come un detective quei segni che possano chiarire la natura di quest’Ego. Quindi vi è una direzione. Come avevo già fatto in Folder, ho atteso una risposta o una traccia esaustiva per chiudere il montaggio del diario. Ne emerge nella composizione finale una fluidità e una ipertestualità coerente con questa specie di ipervita dei nostri tempi.
In Dentro di te c’è la terra vivo la scoperta fatta nel precedente diario: conosci il tuo ego, ma dove e come? Scopro che sono una componente del tutto: io e il mondo. Forse in questo cercare il “super uomo” ci siamo allontanati come dei pazzi da noi stessi. Tendiamo a banalizzare l’ego, perché ci fa sorridere e imbarazzare, ma è probabile che questo tendere troppo verso l’intelletto faccia ancora più impazzire quella componente animale che abbiamo dentro. In Dentro di te c’è la terra cerco allora un modo per riappacificarmi con la terra e tutto ciò che essa significa. Porto con me le persone che amo. Il diario questa volta si presenta scarno nel montaggio e nell’utilizzo dei vari dispositivi. Non ho ritoccato la fotografia, e neppure il suono: tutto è crudo e appoggiato sulla timeline del programma di montaggio. Pochi interventi di correzione. E i tagli come con le forbici sulla pellicola super8, quando si montava a mano e capitava di tagliare male. Certo è altra cosa, ma vorrei avvicinarmi il più possibile al corpo dell’opera e alla sua anima.

In quest’ultimo film è la casa – più ancora che il diario o la camera- a divenire un dispositivo centrale. La casa cupa e festante. La casa col suo vociare antico. La casa che che raggruppa, che sgronda, che è stretta a ognuno dei suoi punti cardinali. Che è dimora dei Santi Medici: Cosma e Damiano. Che è soglia di un ordine altro. Dentro di te c’è la terra sceglie dunque di mettere in scena una famiglia non-mai naturale, e per questo già sovra-naturale. È un manifesto politico, che lascia parlare la vita senza dover aggiungere altro?

Sì, ma non ho avuto scelta. Non ho scelto di mettere in scena, è l’andamento delle cose. Ho evidenziato ciò che per me era significativo. Succedeva e ho afferrato. Questo a provare il fatto che tutto è davanti a noi. La natura ci supera, anche se abbiamo la sensazione di afferrarla e addomesticarla: è già un passo dopo. Tende ad assorbire i colpi e a modificare la sua “membrana”. Come dicevo prima, mi piace molto l’idea di un Dio concepito come intelletto dell’universo intero, e non solo occupato ad assecondare i capricci dell’umanità. Se devo credere a un Dio, credo a questa visione. Ho scoperto (e questo film ne è la traccia) che ci si può emancipare dall’uomo stesso, mettendosi da parte e accarezzando il mondo come se fosse una creatura più interessante di noi e sempre nuova.

Se, come affermi, anche il cinema partecipa a questo continuo rinnovarsi della concatenazione tra le cose, ti rivolgo allora una domanda che mi è molto cara: è possibile chiudere un film? Consegnarlo come opera chiusa, definitiva?

Quando ero adolescente mi capitava di essere attratto dai quei film (che poi erano quelli dati a tarda notte da Rai 3) che a un certo punto sul più bello finivano. La scritta “Fin” mi diceva che il film era francese. Cominciai a pensare che tutti i film francesi finivano male o non finivano. Ritornavo nei giorni successivi a ripensare al film e a quella chiusura. Il punto interrogativo che si era creato dovevo in qualche modo colmarlo io. Non ricordo se quelli che mi capitava di vedere erano i film di Bresson, Trauffaut o Godard. Poi mi innamorai di Pasolini. Capii che se c’era un cinema che mi appassionava era quello. Il lasciare spazio a una interpretazione personale e il toccare in qualche modo l’intoccabile (la materia leggera della poesia?) è nella natura dell’opera d’arte. Pier Paolo in una lettera a Bellocchio parla di cinema di prosa e cinema di poesia. Sappiamo che anche nel cinema, come nelle altre arti, si possono distinguere opere manieristiche e accademiche da quelle più autentiche o con una forte componente autoriale. Si può fare un buon cinema di prosa e un buon cinema di poesia. Il cinema che deve intrattenere, il cinema-spettacolo è un’altra bella sfida. Quello che posso dire, con una certa sicurezza, è che il creare opere che devono saziare la fame ingorda di una massa di persone che consumano per vizio e poi per assuefazione è una sfera del cinema vorticosa e fine a se stessa. Ritornando alla tua domanda non mi fiderei molto a chiudere un’opera in maniera definitiva: sarebbe una certezza troppo presuntuosa!

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