Per Poe, nel racconto che anticipava il cinema di mezzo secolo, il corpo soddisfaceva il desiderio spettatoriale di una narrazione forte concretando la vista nella presenza fisica agente dentro l’immagine, e prima solo osservata. Per Benjamin, che aveva letto lo scritto (L’uomo della folla) nella traduzione di Baudelaire e sviluppava ponti semiotici tra i due, la presenza integrata del corpo contraddistingueva il flâneur, ma già avveniva un ribaltamento nella direzione degli sguardi: la partecipazione sfumava prima in una narrazione debole fatta di passeggiate senza meta precisa e pura osservazione dell’ambiente; poi in un “lasciarsi guardare” dalle cose, in una perdita progressiva del corpo fisico rivolto al mondo. Nella società digitale occidentale la narrazione debole si è contratta ancora di più in un regime di anti-narrazione dominato dal bighellonare senza ragione dello sguardo e dall’azzeramento del corpo come partecipante critico al dibattito pubblico. Il contemporaneo ha completato il ribaltamento strutturale classificandosi come tempo a-narrativo, segnato dalla scomparsa del gesto e dal dominio degli sguardi impropri.
Il cinema di Elia Suleiman, da lucido metronomo della complessità, fa proprio i conti con un corpo che è ontologia surclassata – lutto accettato, carrozzina vuota –, segno espropriato della propria potenza anarchica, incapace di sostenere un attacco di ordine polemico o di risemantizzare l’attualità di un mondo che lo ha svuotato di significato e sovrastato di significante. La sua satira sociale non passa infatti attraverso un corpo inadeguato – idealmente quello in continuo stato di disequilibrio di Tati, che con le sue frenesie diagonali e sgrammaticate scombinava le ideologie programmatiche del mondo francese adulto e post-bellico – nemmeno quando si presta a impossibili acrobazie lewisiane, reali solo grazie al digitale, che nulla hanno a che vedere con il corpo e che appartengono a una legge gravitazionale di classe differente. Piuttosto si fa sguardo inadeguato, ragionamento sull’ultimo patrimonio dell’umano che ancora può essere proprio e non disintegrato, e sul suo attuale stato di crisi, legato al tentato dominio ideologico del punto di vista e quindi delle prospettive di libertà morale.
Ne Il paradiso probabilmente il regista – cercando un controcampo della crisi israeliano-palestinese – squaderna con il suo sguardo l’Occidente, civiltà fondata sul senso della vista. Riconosce nelle terre simbolo delle passate rivoluzioni democratiche (Francia e Stati Uniti) e della presente crisi scopica sintomi sociali non dissimili da quelli presenti in Medio Oriente. In particolare, rileva la comunanza globalizzata di uno scollamento tra vedente e sguardo, una perdita di proprietà della vista che si intensifica in un contesto in cui nessuno, nel costrutto dell’estetica capitalista, nel linguaggio delle ideologie pervasive, nella rete dell’invisibile “aura putrefatta”, sembra più possedere una prospettiva libera. Lo sguardo di Suleiman è invece una risposta satirica in un panorama dove esistono solo sguardi distaccati dal proprio punto di vista, mercificati o militarizzati, ed è uno sguardo doppio – da una parte attoriale e dall’altra registico – che compie un’unica (l’unica possibile) azione: il negarsi, il ritrarsi, il non darsi. Il viaggio planetario affonda nel terreno critico su una corsia con due binari e si conclude con il loro ricongiungimento.
La vista del Suleiman-attore si plastifica in un volto proprio, attonito, sempre attaccato a se stesso, nel carnevale delle personalità mascherate e quindi scisse dalla propria percezione, e non soffre mai la tensione della partecipazione: osserva in disarmo e a distanza l’immagine di una società che è diventata parossistica parodia di se stessa, e non si consegna mai. La sua osservazione è disinteressata – anche quando incontra il mistero lo rispetta tenendo viva la distanza cultuale – e non implicata, non catturata, sempre fuori dalla vetrina, e attraverso la negazione del sé nel momento diegetico, confronta il darsi autonomo del mondo. Allo stesso tempo l’altro suo sguardo, quello registico, compone l’immagine mettendola in tensione con una configurazione in cui la postura composta viene sempre rotta da un elemento scardinante, un principio caotico e asimmetrico – il fumo di un comignolo, una rottura verticale, una diagonale, un uccellino, un loop temporale. I due sguardi, quello di un personaggio e quello di una narrazione procedono all’unisono e si accavallano negandosi all’ambiente che li contiene: il primo difettando la partecipazione agli eventi e il secondo schivando una regolare rappresentazione della realtà, scegliendo la linea dell’immaginazione. E in questo modo diventano fuori ratio, fuori ordine, disadeguamento, anarchia tranquilla, eccedenza.
Lo sguardo inadeguato inceppa la realtà anti-narrativa che voleva espropriarlo e si ritrae dal dominio regolativo. Nel terreno del “vedere non proprio”, il refuso che si sfila dalle coordinate – un vedere che inoltre non commenta mai, resta vedere e non si tramuta in parola – riscrive le leggi e riscopre il potere, l’estensione di se stesso. E lo sguardo, alla fine della propria estensione, quando realizza la sua totale potenza, diventa atto, diventa gesto. Il cinema dello sguardo è puro gesto. Il cinema dell’immagine che esprime la sua piena estensione è l’unico atto libero. La conclusione è allora quella paradossale di uno sguardo che, da ultimo segno dell’umano, diventa il corpo che la realtà digitale aveva disgregato. Quando nel film lo sguardo diegetico e quello extra diegetico combaciano, come nel controcampo finale che è soggettiva sul mondo, allora Suleiman perviene nell’impresa di rendere lo sguardo gesto (critico). Riesce a trasformare la vista in un corpo vero, speso lì nella realtà fasulla dell’inganno del linguaggio. Riconsegna al reale, grazie al cinema, grazie alla vista, la sua ontologia.