Maturo e mai programmatico, L’apprendistato di Davide Maldi ha anzitutto il merito di declinare lo sguardo sul reale da una prospettiva pazientemente narrativa: forse perché si estende su un arco temporale dilatato, come è il ciclo scolastico che Luca, il quattordicenne protagonista, attraversa nell’austero collegio alberghiero in cui è appena entrato; forse per la capacità del giovane non attore di sprigionare quasi innatamente un’aura romanzesca, carica di segni ma irriducibile allo stereotipo, proprio come i suoi sguardi improvvisi e il suo corpo inquieto; o ancora perché la macchina da presa esplora, sonda e riorganizza, tra tagli perturbanti e ironiche simmetrie, lo spazio dell’istituto dove si impara un mestiere e dunque a diventare adulti conformi ai codici del mondo; per tutte queste ragioni il film, già presentato a Locarno in Cineasti del presente, realizza un ritratto modesto e al contempo radicale, carico di fiducia per il corso delle cose e insieme capace di setacciarle, per conferire loro una forza cinematografica aggiornata al contemporaneo.
Tra l’Olmi de Il posto e il Bellocchio di Nel nome del padre, L’apprendistato cala il racconto di formazione e le possibili tensioni tra singolo e contesto in un’atmosfera molto più de-ideologizzata di quanto la dialettica servo-padrone connaturata alla formazione alberghiera lasci intendere: al contrario, a contare è soprattutto il mistero dell’emotività individuale, tutta proiettata fuori campo e reificata nei boschi del villaggio alpino dove Luca, quasi in forma spiritica, si rifugia di tanto in tanto per dare respiro a un inconscio ineffabile, quotidianamente frustrato dalla performatività cui si vorrebbe ricondurre il suo futuro. Abitando una fertilissima vaghezza che è anche la sua cifra d’autore, il film interroga insomma l’adolescenza in rapporto al bisogno di libertà, nel momento in cui la noia del mondo rischia di vestire la vita di un’apparenza e di un ruolo da cui è impossibile fuggire. In questa violenza, anche quando condotta a fin di bene, c’è ancora lo spazio – e forse il cinema serve proprio a questo – per abbozzare la domanda di senso che darà slancio alla vita adulta, conformiste o meno possano essere le scelte che la accompagnano.
Elementare e insieme obliquo, L’apprendistato è un film capace di regalare, anche con divertimento, l’affresco di un’umanità fuori dal tempo, affidandosi ai volti dei suoi giovani personaggi – su tutti Luca Tufano, che spesso la camera ritrae in primo piano con zoom-in stranianti – e alle posture dei loro insegnanti, performer naturali, decisivi per lo sviluppo del racconto. Il conflitto implicito tra la cultura della professione, fatta di misurazioni millimetriche e infiniti dettagli, e il richiamo selvaggio di una natura che è luogo degli estremi – luce e buio, vita e morte, solitudine e ambiente – si rafforza magnificamente nella costruzione del suono, e specialmente nelle ritmiche dionisiache della colonna sonora, firmata da Freddie Murphy e Chiara Lee. Anche nei binari di questo itinerario spiccatamente interiore, c’è spazio per intuire sullo sfondo – complice una gita di classe a Venezia, su una nave da crociera – un’Italia teneramente efficentista, divisa tra nostalgia e senso comune, infantile di fronte al mondo mercificato. Doppiamente difficile sapere chi diventare, in questa nostra terra.