Ci sono differenti tipi di rimozione, sembra dirci Martin Scorsese. Quella letterale e concreta, che i gangster hanno esercitato dalla notte dei tempi, e quella più subdola e inconsapevole, ma altrettanto crudele, dei millennial di oggi: la “Generazione Inetti”, come l’ha ribattezzata Bret Easton Ellis. Gli uni fanno sparire, gli altri semplicemente trascurano, fino a dimenticare. Jimmy Hoffa come Carneade: chi era costui? Un uomo da cui dipendevano i destini d’America, di presidenti, lavoratori e mafiosi, cancellato da uno tsunami di sovraccarico informativo che mescola cultura pop e cultura alta, passato, presente e futuro, rendendo tutto egualmente futile e transitorio. L’orizzontalità trionfa e nulla riesce più a sedimentare, a mettere radici, a crescere. Il passato e il presente vivono così in dimensioni lontanissime tra loro, inconciliabili. A unirli è un fragile vettore, quello di un reduce ostinato, che non accetta il trapasso né morale né fisico: Frank Sheeran, l’irlandese un po’ mitomane che racconta di aver fatto la storia stando nelle retrovie, obbedendo a un codice invisibile che ha finito per privarlo di ogni affetto. Ma la storia di Frank non è l’epopea di Henry Hill (Quei bravi ragazzi) o di Sam Rothstein (Casino). Perché The Irishman non è un film di gangster, è un film con i gangster.
Scorsese cambia stile – insistendo sui primi piani dove prima non ce n’era alcuno – e strumento – Netflix anziché il grande schermo – con un preciso intento: quello di raccontare una storia di oggi e sull’oggi, in cui il passato mitico – dei gangster, di JFK, di Fidel Castro – è lo strumento, il paradigma che ci permette di misurare la distanza tra quel che eravamo e quel che siamo. Tutto ha inizio con un piano sequenza, che dialoga con noi e con la nostra cinefilia. Con il primo inganno, che sembra una autocitazione ma è destinato a condurci in tutt’altro luogo. L’ingresso di Henry dalle cucine del Copacabana viene ribaltato nel suo negativo, con la macchina da presa che entra in un ospizio per raggiungere, anziché per inseguire, il corpo immobile, bloccato su una sedia a rotelle, di Frank, ultimo della sua stirpe. E il gioco di contrasti continua, dai colori che in The Irishman si fanno grigi e marroni dove in Casino era un’esplosione di tinte primarie, dalla colonna sonora che dal rock di Rolling Stones e Cream transita al doo-wop di The Five Satins. Della New Hollywood e dei suoi strascichi, di quel cinema e di quella America non è rimasto più nulla. Anche le pagine più bianche – e più nere – della storia del XX secolo americano si fanno seppia, il loro ricordo scolorisce, diventa imperfetto, grottesco. Vive nella caricatura, nel tratto forte con cui è ritratto Jimmy Hoffa – un istrionico Al Pacino – o nell’imperfezione goffa del deaging digitale, che elimina le rughe ma non può nulla contro l’artrite che rallenta i movimenti del corpo. Un effetto d’insieme che restituisce una sensazione di artefatto, di qualcosa che assomiglia da lontano a ciò che era, sulla base della nostra percezione limitata, miope, superficiale. Ma le fattezze del Johnny Boy di Mean Streets non sono quelle del giovane Frank Sheeran. Neanche l’invecchiamento di Noodles da C’era una volta in America si avvicina a quello effettivo di Robert De Niro, ma il film di Sergio Leone dialoga con The Irishman ben più dei gangster movie dello stesso Scorsese. Tra l’invecchiamento artigianale del killer che andava a dormire troppo presto e il ringiovanimento digitale del killer che si rifiuta di fare i nomi ha luogo un mutamento tecnologico impresso violentemente al cinema e il passaggio dal rimpianto disilluso, per ciò che avrebbe potuto essere, allo sconcerto rassegnato, per quel che è. Sia Noodles che Frankie sono gli ultimi ad andarsene, in ogni caso, in un oceano di malinconia e di rimpianti.
La lezione della Storia non può essere tramandata, nemmeno nei suoi errori, nemmeno nelle storture che marxianamente dovrebbero far sì che si “impari qualcosa”, con due passi in avanti e uno indietro. Lo sforzo di ricordare, per quanto faticoso e fallace, si scontra con la semplicità della rimozione. Ma Frank conserva tutto, segreti e testimonianze di un mondo che non c’è più, non si arrende, non chiude la porta.
Di fronte a una generazione che non ricorda ma condivide, Frank ricorda. E non condivide.