Al netto delle molte polemiche che hanno circondato la sua presentazione alla Mostra del Cinema di Venezia, per poi accompagnarne l’uscita internazionale in sala, ma che giocoforza afferiscono al discorso intorno al film riuscendo ad esaurire solo parzialmente lo sguardo che l’opera chiama in causa, L’ufficiale e la spia di Roman Polanski ha anzitutto il merito di orientare una grande e paradossale lente di ingrandimento sul periodo storico che il nuovo lavoro del regista evoca e lascia fuori campo, e che costituisce anche il sostanziale intervallo temporale che separa le vicende realmente accadute, studiate sui libri di Storia e qui calibratamente rimesse in scena, e la contemporaneità da cui, spettatori, ci affacciamo sul suo intreccio e le sue forme. L’ufficiale e la spia è un film aperto sul Novecento dei populismi e delle manipolazioni proprie del potere, secolo breve e al contempo mai concluso, secolo del cinematografo che fagocita la fotografia e la pittura e, ancor più, secolo del montaggio, elemento che Polanski coniuga sapientemente all’intrigo degli eventi e che, in piena cifra autoriale, assume sottotraccia un intenso valore simbolico.
Non solo, come si è scritto, Polanski riesce nell’impresa di congelare in quadri asciutti le dialettiche in campo e controcampo che regolano il principio della gerarchia militare protagonista assoluta del film; non solo – e fin dalla sontuosa e essenziale sequenza d’apertura – queste gerarchie si scopriranno correlativo delle regole di ingaggio per il racconto e per il percorso dello spettatore; ma più straordinariamente, a guidare il senso dell’opera, è l’indagine che l’ufficiale dell’esercito francese Georges Picquart compie nel corso di tutto il racconto, prima accogliendo supinamente la condanna che vede il capitano ebreo Alfred Dreyfus costretto al disonore e all’esilio sull’Isola del Diavolo, in quanto informatore e spia a servizio del nemico, poi iniziando a decostruire il fitto sistema informativo che ne ha montato il capo d’accusa, e infine mettendo se stesso al banco degli imputati, rinunciando al proprio status e alla propria vita, nel tentativo prometeico di contrapporsi alla menzogna collettiva, e disinnescarla.
Quale strada per stabilire la colpevolezza o riabilitare l’onore il film sottolinea è possibile percorrere, se non quella che trasforma la cronologia e gli elementi del racconto in una vera e propria timeline nelle cui profondità è possibile calare lo sguardo sotto forma di responsabilità individuale, riscoprendo le dinamiche omertose che hanno falsificato il montaggio di un documento decisivo o ne hanno passivamente assecondato la cattiva analisi calligrafica? E quali possibili azioni possono interrompere la devianza del reale e del potere che lo organizza, quando una menzogna diventa il motore scatenante di un’intera miopia collettiva, dove anche il giornalismo e l’informazione remano contro il perseguimento della verità e non garantiscono la più nobile e laica ricostruzione dei fatti? Nello statuario del Louvre Picquart corregge un investigatore che al suo fianco chiama falso la copia romana di un Apollo greco: in questo sottile piano inclinato che manipola la realtà e necessita di uno sforzo per essere raddrizzato sta tutto il conflitto del protagonista del film, non immune a precisi pregiudizi (l’antisemitismo anzitutto), ma incapace di venire a patti con l’idea dell’onore e l’appartenenza a un sistema ideale di valori che hanno fatto di lui colui che è.
Se L’ufficiale e la spia è un mirabile monito per la contemporaneità, è anche per la sua capacità di collocarsi a metà strada nella riflessione sul potere del cinema di ingannare (si pensi alle numerose citazioni di dipinti celebri, completamente reinventati dal digitale) o dirimere l’inganno, e poi fare una scelta che non conduce ad alcun eroico trionfo di buoni precetti, ma più attentamente riflette il destino degli uomini che non vogliono accettarsi parte inerme di un fatale ingranaggio, anche quando chiaramente impotenti. Sta tutto in quell’immagine transitoria di Picquart che, tornato a casa dopo infinite peregrinazioni a suo danno, e in un appartamento messo a soqquadro dai servizi segreti che lo assillano, sceglie di sedersi al piano e suonare qualcosa per sé, con olimpica distanza da un mondo che non riconosce, e saprà affrontare. La sua storia trova forza nell’esaltante lavoro che il film compie sugli spazi e le architetture, che sì rispecchiano l’ordine del mondo, ma si fanno indizi di un suo possibile cambiamento, contro i dogmi del potere che costringono l’uomo all’asfissia di una stanza dove le finestre non si possono aprire.