La ludica libertà con cui Danny Ocean e la sua squadra di formidabili truffatori metteva a segno i propri piani si addice e non poco al lavoro che Steven Soderbergh ha saputo portare avanti nel tempo, esplorando le tante sponde del possibile cinematografico, un piede nell’intrattenimento e l’altro nella teoria, tra clamorosi successi, sperimentazioni tecnologiche e cinefili flop. Da qualche anno a questa parte, complice un sempre più forte vaglio produttivo in prima persona, Soderbergh è riuscito a problematizzare questa istanza sovversiva in un discorso stratificato e politico, che ha sì attinto alla cronaca e all’attualità – come del resto già accadeva per i lontani Erin Brockovich e Traffic – ma rivendicando la domanda di senso che ogni storia, specie quelle ricostruite a partire da eventi realmente accaduti, può dischiudere in forma ipertestuale.
Anche il celebre scandalo dei Panama Papers (2016), che attraverso un copioso fascicolo di documenti confidenziali rivelava come lo studio legale Mossack Fonseca permettesse a individui milionari di eludere il controllo statale sui propri patrimoni, con tanto di frodi ai danni dei piccoli risparmiatori, poteva essere affrontato con lo spauracchio di un ginepraio informativo da rendere il più possibile lineare, e magari manicheo nel ritratto di vittime e carnefici. Al centro della divertita antologia di storie da tutto il mondo che compongono The Laundromat, al contrario, Soderbergh colloca un dissacrante principio di ingovernabilità globale dei fenomeni, dove la tragedia della pensionata Meryl Streep che perde il marito in un incidente e comincia a sospettare una kafkiana catena di truffe assicurative, può intrecciarsi alla rottura della quarta parete da parte degli stessi Mossack e Fonseca, tutti dediti a raccontare allo spettatore, in forma uber-farsesca, come quella catena si sia messa in moto e perché, tutto sommato, neppure loro abbiano mai potuto interromperla.
L’incapacità di ricondurre gli effetti alla causa, se non con un cinico spirito da barzelletta volto a giustificare lo status quo, la simultaneità dei processi in atto che esalta ogni possibile forma di disintermediazione anche quando passa attraverso le firme di prestanome senz’arte né parte, la sensazione che tutto il denaro, dalle società offshore dei paradisi fiscali alle proprietà immobiliari fino ai margini creativi della legalità, viva una vita invisibile di cui nessuno può dirsi interprete, portano il film di Soderbergh a tratteggiare una mappa del mondo costellata di incessanti “gusci vuoti”, troppo globale per poter essere denunciata e troppo intangibile per poter essere perimetrata. Eppure concretamente attiva, capace di produrre e perpetrare l’ingiustizia.
Nel paradosso della virtualità del capitale sono proprio le immagini di un film carnevalesco a offrire una visione in filigrana sul reale, la stessa che può smascherare una truffa o muovere il riscatto degli uomini onesti, i miti della beatitudine evangelica ormai dimenticati dalla terra che dovrebbero ereditare. A dispetto della tentazione di gigioneggiare in questa giostra fatta di trovate geniali e continue digressioni, Soderbergh gira con una lucidità disarmante: il suo lavoro porta nella forma quello che il sedicente cinema di denuncia si ostina a confinare nella sostanza. Certo, come in High Flying Bird la catarsi sembra impossibile. Così come risulta difficile empatizzare con i personaggi al centro della vicenda, simili alle funzioni di un beffardo teorema anche quando esposti alle loro più umane fragilità. Ma se il regista americano gioca incessantemente a rovesciare le attese, fino a un emblematico finale meta che chiude (o apre per sempre) il suo clamoroso catalogo di scatole cinesi, un motivo c’è: il travestimento può essere una strategia della messa a nudo, così come l’immaginazione, la mise-en-abyme della finzione, una chiave per instillare il desiderio di trasformazione della realtà.