Con la trasposizione cinematografica del romanzo di Jack London, Pietro Marcello realizza uno dei film più importanti del cinema italiano degli ultimi anni e si candida a un posto nel palmares di questa edizione della Mostra del Cinema di Venezia. Testo fondante per intere generazioni, il libro dello scrittore americano, pubblicato più di cent’anni fa, è tutt’ora un vademecum imprescindibile nel ripercorrere l’apprendistato amoroso, culturale e politico di un giovane marinaio di San Francisco che, con grande volontà d’animo, riesce a farsi scrittore affermato. Salvo poi sacrificare tutto sull’altare della disillusione e scomparire nell’acqua che era stato il primo ventre dei suoi sogni. Marcello e lo sceneggiatore Maurizio Braucci traslano la vicenda nelle proprie terre d’origine e Napoli diventa l’affascinante scenario per un melodramma esemplare che abbandona chiare connotazioni temporali per farsi apologo di un Novecento interiorizzato e sincretico.
Interpretato da un perfetto Luca Marinelli, Martin Eden (che conserva il suo nome anglofono, così come accade per il mentore Russ Brissenden di Carlo Cecchi) è un giovane passionale e volitivo, deciso a intraprendere la “inarrestabile marcia nel continente del sapere”: cruciale è l’incontro con la bella Elena Orsini, di nobile famiglia, e grazie all’amore per la donna prende il via un percorso di emancipazione culturale che lo conduce nel cuore della società dello spettacolo. Nel romanzo di London il protagonista si domanda, una volta raggiunto il successo, cosa sia tanto cambiato nelle proprie opere da farle contendere agli stessi editori che un tempo le rispedivano al mittente: e lo stesso quesito dev’essersi posto Marcello, cineasta militante deciso a conservare la propria integrità all’interno dell’industria cinematografica, in occasione di un film che può per la prima volta contare su un budget medio-alto (per lo standard italiano) e un attore di punta, pur rimanendo autoprodotto con L’Avventurosa.
Alla domanda implicita il regista risponde con un’opera che tiene saldo il timone di una visione politica e personale come poche altre nella cinematografia nazionale, ideando una forma di messa in scena in grado di rendere allo stesso tempo la specificità e l’universalità dell’assunto. In perfetta continuità con la poetica elaborata nei film precedenti – l’anarchia dell’eterno transito di Il passaggio della linea, il fulgore della passione folle del marinaresco La bocca del lupo, l’eredità culturale contadina del fiabesco Bella e perduta – il regista ricorre agli evocativi materiali d’archivio per garantire, ancora più che nella parte finzionale, lo statuto presente di una Storia che proprio riflettendosi nel proprio passato trova piena contemporaneità. La vicenda scorre per ellissi – alcune fortissime, come quella che d’un tratto rivela il protagonista ormai affermato ma anche in piena decadenza fisica e morale – e conduce in un vortice furente all’interno del quale il carattere litigioso e indomabile di Martin prevale su tutto e tutti (liberali, socialisti, capitalisti), salvo poi finire sconfitto dal proprio irriconciliato afflato individualista.
Questa la lezione più grande di un’opera che guarda in faccia senza paura le ombre più nere di un Novecento che ha lasciato macerie di pensiero tanto sul piano politico che su quello filosofico, come dichiara il finale con gli immigrati dei nostri giorni e i legionari fiumani. Ma anche un monito dichiarato contro l’idolatria dell’io che segna in maniera così profonda il tempo che viviamo e il suo senso di sconfitta collettiva.