Non c’è nulla di più spiacevole che fare una dichiarazione che contiene in sé sia il motivo per cui premiare un film sia quello per cui (in maniera pregiudiziale) non annetterlo tra i possibili vincitori. Ancora di più se da una parte c’è una stimata presidentessa della giuria, la regista Lucrecia Martel, e dall’altra si ha un genio del doppiogioco come Roman Polanski, che con J’accuse – in concorso a Venezia76 (in Italia sarà distribuito dal 21 novembre con il titolo L’ufficiale e la spia) – firma un’opera politica e personale, capace di rimettere in discussione qualsiasi posizione si possa assumere nei confronti di un artista dalla vita complessa e imperscrutabile. Tornare oggi sull’affare Dreyfus, materia storica con la quale ci siamo tutti scontrati a scuola senza comprenderne a pieno la portata, appare di una contemporaneità sconvolgente, in tempi in cui “lo straniero” finisce per essere il capro-espiatorio di qualsiasi processo e in cui la forza mediatica tende a rafforzare le dinamiche del potere piuttosto che combatterle.
A Polanski non interessa raccontare perché l’ufficiale ebreo Dreyfus (interpretato da un Louis Garrel ai limiti del riconoscibile) sia stato condannato in prima istanza, e poi cacciato sull’Isola del Diavolo come traditore della Francia, ma costruisce interamente la narrazione – ispirata al romanzo di Robert Harris – sul capitano Picquart (un convincente Jean Dujardin, che non gigioneggia mai), messo a capo del Servizio segreto e promotore di un’indagine che scagionerà Dreyfus e metterà in crisi l’esercito francese. Attorno al capitano, si muoveranno alcuni pensatori liberi, tra cui lo scrittore Émile Zola, che sulla faccenda pubblicherà il celebre pamphlet “J’accuse”.
Costruito seguendo la presa di coscienza politica di Picquart, a capo di una squadra dei servizi segreti che usa tecniche primitive eppure così simili a quelle contemporanee, il film si struttura come l’inchiesta di un singolo che, perseguendo la verità, arriva a destabilizzare il potere. È proprio la forza della solidità morale di Picquart il motore trainante dell’opera – in questo curiosamente simile al fatto storico alla base di A Hidden Life di Terrence Malick –, tanto che l’uomo si muove nei corridoi del potere (luogo simbolo del cinema di Polanski) come un capitano su una nave in declino, cigolante e tetra, ancora funzionante eppure già perduta. In un crescendo appassionante di intrighi e di sotterfugi (usati dall’esercito per nascondere la leggerezza con cui era stato affrontato il primo processo), Picquart si oppone utilizzando strumenti diversi, laddove si alzano i toni lui sa abbassarli, sceglie di evitare ogni “colpo di scena”, resta fermo sull’evidenza delle sue prove concrete. Un discorso valido in tempi di “caccia alle streghe”, che anche se non porterà a una facile vittoria (perché il popolo preferisce condannare Zola e bruciare i suoi libri), metterà in moto un nuovo processo che porterà a una sostituzione della classe dirigente.
Acuto e spietato, Polanski confeziona un film classico di altissimo livello: pacato nella ricostruzione storica, fantasmatico nel descrivere le pieghe del sistema, lucido e vibrante nella parte finale chiusa tra le pareti del tribunale. Ma il cineasta è anche un uomo consapevole del fatto che restiamo ancorati a una struttura di potere e che la trappola più grande per ogni individuo onesto è accedere a quei vertici che ha duramente criticato. Così il film si chiude in una sala del governo sui cui tappeti risuonano ancora i passi gravi di chi lotta contro la tempesta della Storia.