La prima inquadratura suggerisce l’esistenza di una prospettiva divina, pronta a creare un mondo prossimo nel tempo ma ancora sconosciuto. La termografia girata dall’alto della sepoltura di un soldato ucciso da altri soldati dichiara infatti, fissando il nodo centrale del piano visivo, la posizione dove si nasconde il punto di vista autocosciente e comprensivo dell’essenza umana. Il percorso visuale di Atlantis, il film di Valentyn Vasyanovych presentato a Venezia in Orizzonti, calato in un cosmo narrativo macroscopico ma costruito sulla realtà emotiva di pochi individui, è un processo di avvicinamento, tensione e liberazione verso il segreto di questa posizione, e non a caso parte (proprio a livello di grammatica) dall’estremo opposto della futura conclusione: la verticalità termografica divina del preludio lascerà presto il passo alla dimensione dell’uomo vivente, del personaggio creato, cioè l’orizzontalità. La vicenda post-bellica di un soldato al limite delle patologie dissociative è descritta proprio su questo asse di riferimento: il suo profilo, psicologico e non, è steso (già virtualmente cadaverico), allineato o schiacciato nell’orizzontalità della configurazione.
L’uomo sbatte sulla superficie su cui è dipinto, conosce la profondità di campo solo come la misura della distanza dello sparo, vive nel cortocircuito distopico del saldare-smontare e assorbe le proprie azioni performative: diventa superficie psicologica formata dalla circolarità di un gesto ripetuto. La frequenza con cui si descrive il suo vivere è la stessa del referto autoptico che a un certo momento viene messo in scena, e che ricorda l’impossibilità di descrivere l’interno, l’essenza dell’individuo, ma solo l’esterno: l’autopsia è pura ingegneria, studio dell’osso e del suo costrutto formale, unica narrazione di uno spazio denso di cadaveri e di profili umani depersonalizzati, privati della coscienza. Anche quest’unico, soffocante livello primario può però essere risemantizzato: l’incontro con l’altro – l’altra, prima donna, Eva che salva Adamo – ricorda che un profilo non è un referto, è il segno dell’individuo, del suo passaggio. Allora anche il dissotterrare cadaveri diventa leggere la filigrana antropologica nascosta negli strati della terra e fare archeologia del senso in un presente che lo ha fagocitato per impossessarsene e dimenticarlo. L’incontro spacca la superficie e uomo e donna iniziano a scavare nell’immagine, cercando la prospettiva.
La grammatica, come un sintomo, cambia allora con un piano sequenza, che sostituisce per un momento il piano fisso e dispiega visivamente l’allungo, l’addensarsi esplorativo nello spazio di una coscienza appena risvegliatasi: la corsa autocosciente è propulsione verso il centro dell’immagine, un corridoio visivo schiacciato a fisarmonica contro un punto di fuga che si rivela essere il dono di un ulteriore profilo. L’umano riconquista la capacità di rappresentarsi e quindi si comprende, si proietta e non è più solo superficie, ma in se stesso diventa profondità di campo; compresa e riguadagnata la propria presenza nel disastro, la propria prospettiva, si getta nello spazio che lo separa dal punto di comprensione del mondo. È una splendida sequenza erotica all’interno di un furgone battuto da una pioggia violenta a sintetizzare questa tensione teorica: l’inquadratura supera la superficie schermica del vetro del parabrezza, poi configura un amplesso primigenio prolungato e infine apre la porta dell’immagine – le porte posteriori del furgone – spalancando il fondo campo. Ecco allora il cuore, il nucleo sepolto, lentamente raggiunto dopo l’attraversamento degli spazi.
Riappropriandosi del punto di vista su di sé e raggiungendo il segreto sotterrato, cioè il punto di vista dall’alto sul mondo, la sua comprensione sinottica, gli uomini compiono la loro esperienza. Nella prospettiva orizzontale guadagnano la prospettiva verticale che si diceva divina: questo passaggio è testimoniato ancora una volta della forma, in questo caso nel ritorno della termografia, che riprende le vibrazioni emotive dei due corpi umani, uomo e donna, uguali a prima ma ora diversi. Riconquistando l’orizzonte del mondo, che prima era prigione, l’uomo è libero. Atlantis conclude così un complesso ma commovente discorso formale, dimostrando come anche alla fine della civiltà umana – nel turbinio del disastro climatico, nella tragedia sociale, nel disastro politico – possa nascere una nuova civiltà dello sguardo: destinata a ricostruire il presente, a ricordare la vita, a ripensare la società, a stare da questa parte e non ad andare al di là. Quando tutto sarà finito e resterà solo il crollo, quando il mare diventerà aria e le lacrime non esisteranno più, tra le macerie del mondo si alzerà uno sguardo. E questo potrà di nuovo creare.