Non c’è spazio per il trauma nell’epica western. O, per essere più precisi, il traumatico nella sua accezione di evento puntualmente segnante trova sì posto in tale panorama di genere, ma non in funzione dei processi di metabolizzazione, sopravvivenza e resistenza. L’eroe di questo cinema non è quasi mai l’eroe amletico dell’inazione, paralizzato dal turbamento interiore e dall’incapacità di integrare la propria esperienza soggettiva con un’esistenza stravolta. La narrativa dei film western lavora spesso dopo, anzi, oltre, il trauma: l’evento catastrofico esiste solo in quanto ostacolo sormontabile e picco su cui svetta il trionfo della tenacia americana, in piena regola con il mito fondativo che soggiace all’intero genere. Insomma: arrendersi non è opzione contemplabile e la morte, quella eroica e romantica che trasforma in leggende, le è di gran lunga preferibile; una logica che ben si sposa con la mascolinità narcisistica e individualista della società occidentale.
È per questo motivo che The Rider, opera seconda di Chloé Zhao (vincitrice del premio Art Cinéma presso la 70ª edizione del Festival di Cannes), si potrebbe descrivere come anti-western: piuttosto che confermare le convenzioni identitarie del genere in una sua attualizzazione (come nella recente produzione del regista-sceneggiatore Taylor Sheridan) il film ne pratica un ribaltamento, attuato a partire dalla realtà biografica dei suoi attori non professionisti. Ambientato ai giorni nostri nella riserva indiana di Pine Ridge, in Sud Dakota, The Rider segue le vicende del giovane cowboy Brady Blackburn, star emergente nel circuito dei rodei, in seguito a un infortunio tanto grave da comprometterne la carriera. Tramite una sceneggiatura dai ritmi distesi (minuziosa nel seguire la quotidianità del protagonista in un approccio narrativo che relega l’incidente al fuori campo) il racconto delinea l’esistenza post-traumatica di Brady permettendo allo spettatore di accedere in modo sottile a quel portato di discorsi, aspettative e modelli comportamentali inerenti alla percezione del maschile nella contemporaneità. La scrittura di Zhao definisce situazioni, caratteri e dinamiche relazionali con fine intelligenza, comunicando senza didascalismi i processi identitari e le configurazioni intersoggettive di un microcosmo sociale. Così, se gli amici di Brady liquidano il suo incidente con un “non lasciare che il dolore ti abbatta”, riducendo il problema a una questione di forza di volontà, mentre il rozzo padre tentenna nel suo pragmatismo anaffettivo, ricordando al giovane le responsabilità verso la famiglia, diverso è il rapporto con la sorella Lilly, affetta da autismo, nei confronti della quale Brady prova un sentimento intenso e protettivo, paragonabile soltanto alla sua immensa passione per i cavalli. Passione che potrebbe ora risultargli fatale a causa delle lesioni cerebrali riportate dall’incidente.
Quest’ultimo elemento risulta centrale nella costruzione drammaturgico-registica impostata da Chloé Zhao. The Rider si dispiega infatti in una partitura drammatica diluita e dimessa che valorizza le poche, delicate note tensive (principalmente i momenti di cavalcata e addestramento degli stalloni, attività potenzialmente letali per Brady). La regia pare assecondare questa duplicità, passando da un montaggio placido e paziente, per raccontare la quotidianità dell’ex cowboy, a un’osservazione prolungata e unitaria, spesso dinamizzata da movimenti di macchina, per seguirne gli ultimi, disperati tentativi di tornare in sella. Una simile ambivalenza sembra far eco al conflitto interiore che Brady vive quotidianamente: da una parte, la rinuncia alla sua carriera e la mesta ri-pianificazione di un’esistenza lavorativa; dall’altra, la tensione a restare aggrappato a un’identità e a una progettualità inattuabili.
The Rider si immerge pertanto nella psiche che metabolizza il trauma cogliendone la tensione lacerante, lo spaesamento, la ricerca di un’identità difforme da quella socialmente imposta. Il sofferto percorso di Brady si configura come rinnovamento di coordinate valoriali, un atto di coraggio che non si consuma nell’ostinazione eroica, nel disperato tentativo di conformarsi ai canoni di mascolinità. Non c’è alcun eroe nell’anti-western di Zhao, ma un uomo che accetta i propri limiti riconoscendo le responsabilità che lo legano a relazioni e affetti. Non è un caso che il giovane spenda tanto tempo con l’amico ed ex-cowboy Lane Scott, reso gravemente disabile da una brutta caduta: in Lane, Brady vede la tragica conclusione della sua vita di bronco rider, ma anche l’urgenza di dedicarsi alla cura e alla tutela di coloro che ama. Insomma è tramite la resa, quel gesto amaro ma maturo e consapevole, che il giovane trova la sua ragione di vita, insieme al coraggio, in una società di uomini de-responsabilizzati dal proprio individualismo, di essere capace di sopravvivere trovando forza nei rapporti umani.