Il cinema di Park Chan-Wook ruota intorno all’inganno. Consapevole della fallibilità in cui l’immagine incorre, rappresentando nient’altro che un punto di vista, una soggettività e inevitabilmente un’illusione, la sua filmografia procede nella direzione di una ricerca formale e perfezione estetica sempre più magistrali e implacabili. La bellezza delle sue opere non è mai un teatrino stilizzato che prevarica il racconto; sotto a uno splendido abito da sera ricamato con precisione chirurgica, sotto agli slanci più lussuriosi della macchina da presa, faticano a contenersi le tensioni più stratificate e perverse dell’animo umano. Non sempre l’equilibrio miracoloso tra forma e contenuto si è mantenuto solido e costante: in film come I’m a Cyborg but That’s Ok e Stoker la tentazione manieristica ha preso il sopravvento sull’attenzione all’architettura narrativa. Ma in casi come Old Boy, Lady Vendetta, Thirst e il recente Mademoiselle, il regista sudcoreano dimostra la capacità di fondere abilità virtuosistiche e sceneggiature di costruzione ferrea che attualmente pochi autori al mondo riescono a permettersi.
Basato sul romanzo Ladra di Sarah Waters, ambientato nella Londra vittoriana del 1862, Mademoiselle riadatta l’opera letteraria nel 1930, durante il periodo dell’occupazione giapponese in Corea, in piena stagione di espansione militare. Maneggiando un tessuto narrativo che svela e rivela in continuazione secondi fini e cambi di prospettiva, Park riesce a comporre un intreccio sontuoso dove la questione storica si confonde con l’attrazione erotica, i conflitti di genere e i rapporti di classe. Il denaro è ciò che muove inizialmente i comportamenti dei protagonisti: la coreana Sook-hee è una ladra che, in accordo con il finto conte Fujiwara, si fa assumere come dama di compagnia dalla ricca e bellissima giapponese Hideko, ereditiera orfana che vorrebbe emanciparsi dalla propria condizione, sotto tutela di uno zio coreano laido, sadomasochista e intenzionato a sposarla per impossessarsi dei suoi beni. L’incidente che complica i piani di tutti i personaggi è il gioco di seduzione che Sook-hee e Hideko s’illudono di poter controllare e sfruttare al fine di raggiungere i rispettivi obiettivi. Nella loro prima relazione carnale, Park compie un capolavoro di ambiguità e sintesi, raggiungendo un apice psicologico raffinatissimo per il cinema dell’eros: lo strumento del corpo, del sesso, come inganno nei confronti dell’altro, che trova il proprio ostacolo proprio a causa del contatto fisico ed emotivo con l’altro. L’eccitazione di Sook-hee e Hideko appare massima, forse determinata dalla reciproca consapevolezza di nascondere un secondo fine: il loro piacere è comunque una finzione? Oppure la nascita di una nuova scoperta, di una possibile via di fuga, che abbatte ogni astuzia, raggiro e inganno?
Mademoiselle si avviluppa così in una tessitura che dispone dei conflitti tipici e di tutte le chiavi di lettura presenti nel cinema di Park Chan-Wook: la rilevanza della contestualizzazione politica e storica, dell’influenza pubblica sulla vita privata delle persone, e perciò dei contrasti tra cultura dominante (Giappone) e sottomessa (Corea); la dicotomia della società in classi e le inevitabili ed esplosive conseguenze che genera la loro commistione; il sesso come dispositivo di lotta di classe e di genere; il sentimento come unico elemento imprevedibile, una mina vagante che può ribaltare ogni piano prestabilito e sovvertire ogni gerarchia, ogni punto di vista. E infine, come sempre, il necessario desiderio di vendetta, un bisogno speciale dell’individuo senza cui qualsiasi conquista non può considerarsi compiuta né risultare davvero appagante. Recuperando il gusto per il twist che lo aveva caratterizzato nelle sue pellicole più celebri, Park aggiunge un ulteriore tassello a un mosaico dietro alla cui illusione di folgorante bellezza si cela un animo in costante agitazione e mai riconciliato.