La vita di Eurídice Gusmão diventa invisibile per mezzo della musica, assumendo un’identità leggiadra, capace di scalzare l’incorporietà plumbea del quotidiano, che la costringe nelle stanze familiari, nelle quali il pianoforte è un legno diafano, il segno di un’emancipazione da soffocare. La melodia di Eurídice rende invisibile Guida, sua sorella, permettendole di lasciarsi andare a una fuga d’amore risucchiante, per poi trasformarsi, paradossalmente, in uno strumento e in un racconto di ineludibile separazione, esteso nei decenni. Eurídice e Guida partono da esperienze comuni nel milieu piccolo borghese della Rio de Janeiro degli anni ’50: sono donne e devono sposarsi, sottoponendosi totalmente alla volontà maritale. I tentativi di allontanamento dallo schema prestabilito costeranno cari ad entrambe, scaveranno una ferita lacerante, un senso di inguaribile sgomento e infelicità. Dove l’invisibilità diviene irrintracciabilità sororale e sottomissione sociale.
L’opera di Karim Aïnouz riesce nella resa di intimissime emozioni, senza rinunciare a dispiegare una narrazione dall’impianto classico e melodrammatico. L’intensità del dolore che scaturisce dalla coercizione familiare si scontra con la folgorante pulsione del desiderio, e il tutto nutre l’articolata diegesi filmica, densa di peripezie. Il carico emozionale scaturisce da un universo simbolico dettagliato e dall’abilità che la macchina da presa conquista nel saperlo rincorrere, senza dominarlo, rifuggendo l’uso eccessivo di primi piani e dettagli e affidandosi a lunghi piani sequenza. Il profumo dissolto nel riflesso di uno specchio intorpidito e l’immagine di una Guida sanguinante che, col ventre ancora rigonfio, cerca disperatamente di allontanarsi dal figlio che le nasce in condizione di clandestinità, rimandano rispettivamente alla fierezza dell’indipendenza femminile e alla tragedia (vera oltre la finzione) di un cieco e inflessibile moralismo patriarcale. Il simbolismo dell’emancipazione e quello del dolore si mostrano flagranti allo sguardo del regista, fedele ai suoi personaggi femminili, pronto ad affiancarli, quasi a indicare l’urgenza di una testimonianza verso una storia tutt’altro che lontana, pregna di echi politici e di ombre sul presente.
Il melodramma poetico è rafforzato da una fotografia al contempo intensa e lineare. I colori densi si inseriscono in campi calibrati, ma incompleti. L’incompletezza dei confini scenografici è il luogo dello sfocato, degli oggetti in disordine attorno a un quadro di chiaro impianto pittorico, nei cui angoli si può dischiudere l’impronta dello sguardo fotografico di Hélène Louvart. Gli scorci si nutrono di una tempera rubata agli anni ’50, che scolorisce completamente nell’epilogo, ambientato nei freddi colori della modernità.
Sotterraneo alla narrazione, tratta dall’omonimo libro di Martha Batalha (Felrinelli 2019), serpeggia delicatamente l’escamotage del doppio. La vita invisibile di Eurídice Gusmão richiama, forte del posto riservato alla musica, une vielle double vie, inconciliabile sul piano corporeo, ma simbiotica nella distanza spaziale, meno esplicita anche se debitrice all’operazione kieślowskiana. La sagoma di Eurìdice assomiglia a quella di Guida e, in alcuni frangenti, si ha l’impressione che le due sorelle, seppur destinate a percorsi diversi, siano la stessa persona: la donna sola e unica che si specchia e viene spiata attraverso le superfici di un acquario o di un angolo di riflessione. L’apparente fusione di due vite che scorrono parallele potrebbe condurre all’impossibilità di riconoscersi se non nella vecchiaia, ovvero poco prima della morte. La vicinanza alla morte non concilia i doppi destini, ma porta con sé una consolazione: Eurídice può guardare al passato e ristabilire, scevra dall’imminenza emozionale della giovinezza, l’ordine fattuale di ciò che è stato.