Basilicata. Complesso della Santissima Trinità di Venosa. Qui Samira Guadagnuolo e Tiziano Doria hanno scelto di girare il loro film più recente, presentato in concorso all’ultima edizione del Festival di Locarno. Qui da secoli l’Incompiuta tutto accoglie, stringendo a sé le sue voci intormentite, già remote: donne che vanno al lavoro, profughi, braccianti. Qui le mura tesoreggiano le incrinature e gli spasmi del tempo, fittamente avvolti nel fico, sorta di filigrana dell’intero film. Perché il fico? Forse perché visto come assioma dello scrutamento fecondo, materia abbondante, slabbrata; nuova maternità delle cose: le “fiche” dei dialetti meridionali, aperte “come vulve che aspettano il seme”. Forse perché vi si può identificare anche un buffonesco sommario di tutta l’infermità del mondo: “Non un fico per la mia voglia. L’uomo pio è scomparso dalla terra” lamentava il profeta Michea nell’Antico Testamento, rimanendo però in un’attesa messianica. E allo stesso lamento partecipa il film quando interroga il vasto complesso architettonico come fosse un commentario di pietra, la vestigia di una vita differita, incompiuta perché irredenta: “aspettavamo la luce, ed è venuto il buio”. Eppure, continuando a visitare la pellicola, a passarla al vaglio, la giustapposizione di facce e solchi come anche di materie bastarde (per costruire la chiesa furono impiegati resti di monumenti romani, longobardi ed ebraici) si rivela gradualmente quale appello all’interpretazione ri-creatrice di senso. Ai due registi non interessa l’archeologia in quanto elenco di sassi stanchi, ma in quanto irradiazione, vagheggiamento o intreccio di ere, vita di infinite forme che si spostano irrequiete, e irrequiete domandano di essere sollecitate.
“Un corvo che nella notte eterna non poteva trovare cibo, desiderò la luce, e la terra si illuminò”. Come il corvo di questo racconto eschimese, il cinema sollecita. Ancora: rimuta gli attriti, le contraddizioni, l’aspettazione della luce che sembrava invece disattesa. Attinge dal doppio influsso nutriente e digiunante delle tradizioni popolari. Fabbrica giunture. Warshadfilm -il nome con cui i registi si firmano- significa in lingua somala proprio fabbrica o laboratorio, e questo appellativo si manifesta anche nella decisione di produrre intervalli tra blindate memorie, di operare attraverso la cinepresa uno squassamento delle etimologie sicure, riaprendone la ricerca, abbracciandone i molteplici intrecci, che è poi una delle massime “allucinate” del Louis Lambert di Balzac: “La specialità sta nel vedere le cose del mondo materiale come quelle del mondo spirituale, nelle loro ramificazioni originarie e conseguenti.” Si apprenderà allora che è il celato stesso a essere pienamente esposto.
In un’intervista dedicata a Canti Neri, riflessione sulla Somalia degli anni 60’ a partire dall’infanzia di Samira Guadagnuolo (che lì ha vissuto con la sua famiglia), viene esplicitato il metodo di lavoro: “Ci soffermiamo sul periferico dell’immagine, tagliandone dei dettagli e reiterandoli in secondi molto dilatati.” Un metodo di lavoro che si traduce -seppur in maniera meno insistita- nello scheletro concettuale di Incompiuta. Così espanso, il fotogramma diventa qualcosa in più dell’intero film in cui è contenuto: un supplemento di avvenire che fa traballare il presente dell’opera, consegnandolo già a un fuori margine, laddove vigerebbe altrimenti il comandamento perentorio di chiudere con il ricordo e con la testimonianza (“lasciate in pace questi ruderi e questi morti”). Per questo l’utilizzo della pellicola piuttosto che del digitale: la memoria non potrebbe farsi altrimenti memoriale dell’infinito logoramento, mormorio e impronta delle lacerazioni vaganti, degli strappi della storia. Per questo tanto Incompiuta quanto Canti Neri sono ugualmente distanti dalla fiction, dal manuale etnografico e dal cosiddetto documentario storico, che rappresenterebbe soltanto un altro modo di chiudere, di dare autorità alla finitudine del dispositivo, alla sua “attualità”. Questi film sono sì una provincia del ricordo, ma una provincia che è già tremore capitale, sbordamento dalle successioni cronologiche, dalla scansione del pubblico/privato: “In quest’infanzia, in quest’origine è traslata anche l’infanzia di un intero paese. Tornare alle immagini del ricordo è anche intuizione dello stato di esperienza come dolore e quindi regressione nel fuori dal tempo” spiega la Guadagnuolo a proposito di Canti Neri.
Dislocare i tempi per offrire ospitalità all’apertura e all’incompiutezza, oltrepassare le dogane della decifrazione storica per dedicarsi al sottosuolo, alla periferia dei dettagli: ecco un metodo davvero “anacronistico” perché incapace di rapprendere, di cristallizzare, il proprio disegno di giustezza o di appartenenza. Fin dagli esordi, Samira Guadagnuolo e Tiziano Doria hanno impiegato il cinema come un’amorfia, l’intervallo nero che permette di vedere, senza il quale non potremmo davvero vedere. Ma è soprattutto in Incompiuta che i due registi fanno appello, con piena evidenza, a ciò che del cinema sopravvivrà forse nella visione, oltre il cinema stesso: un modo di sollecitare le braci; l’irruzione di una seconda vita dell’occhio. “Allora abbiamo aperto gli occhi, e abbiamo visto di essere nudi…”
Samira Guadagnuolo, contributo testuale da Incompiuta
Allora abbiamo aperto gli occhi
e abbiamo visto di essere nudi
abbiamo intrecciato foglie di fico
e ne abbiamo fatto cinture.
Il soffio non torna quando il respiro finisce
nudi abbiamo chiamato
abbiamo chiamato perchè eravamo soli
abbiamo chiamato ma nessuno ha risposto.
Ovunque andiamo ci sono alberi di fico
dai legni flessi, dolci, molli
coi loro frutti penzoli
con le foglie che piangono latte
sopravvissuti all’eden
bianchi contro il cielo bianco
Frutti aperti
Come vulve che aspettano il seme.
Ne abbiamo mangiati
con la bocca, dall’albero.
Ovunque andiamo ci sono alberi di fico
dai legni secchi, piegati, guasti
hanno l’odore caldo
di un liquore nauseabondo
che sale dalla terra calpestata
tomba d’erba dimenticata.
Aspettavamo il bene
ed è venuto il male
aspettavamo la luce
ed è venuto il buio.