Ogni ciclo vitale ha un inizio, uno sviluppo e una fine. E poi ricomincia daccapo. Il decadimento cede il passo alla rinascita in un cerchio infinito. Tra i due estremi inscindibili di vita e morte, Ari Aster comincia, in entrambi i suoi lungometraggi, con la conclusione. Il decesso rappresenta il principio, il motore dell’azione: se la prima immagine di Hereditary era un epitaffio su sfondo nero, Midsommar si apre con lo straziante lutto della protagonista. Dal buio baratro del cordoglio, sola nel suo dolore, Dani (la brava Florence Pugh) intraprende un viaggio che ha il sapore di un percorso iniziatico verso la rigenerazione. Ad accompagnarla in Svezia, in una piccola comunità rurale, ci sono il fidanzato Christian, lo studente curioso Josh, il frivolo Mark e Pelle, originario del villaggio svedese dove ogni anno si svolge il Midsommar, festival-rituale di mezza estate.
Dopo una prima parte introduttiva, Aster spinge il gruppo di americani ad abbandonare i sentieri conosciuti e a varcare confini magici oltre i quali si cela una realtà disturbante. I quattro lasciano alle spalle la civiltà e si addentrano nella natura, quel «tempio ove pilastri viventi / emettono parole confuse» e la attraversano «tra foreste di simboli». Prendiamo in prestito le Corrispondenze di Baudelaire perché la chiave di Midsommar è proprio il simbolo, pregio e difetto (a seconda dello sguardo) del film. Il secondo lungometraggio del regista americano è ricco, debordante, esagerato. Ma in questa amplificazione si percepisce un flusso di libertà creativa che si esprime, appunto, attraverso una simbologia studiata, costruita come il lavoro di un antropologo che scava sotto strati di segni per portare alla luce culture lontane e inaccessibili.
Una complessa stratificazione di emblemi – rune, vestiti, colori, disegni, gesti – avvolge il cuore di Midsommar, lo ricopre con un folklore pagano luminoso e affascinante. Le parole confuse si schiudono a poco a poco (o a pochi?). Un procedimento simile, meno audace e sfrenato, accadeva in Hereditary, suggestivo risultato della mescolanza tra ghost story, dramma, horror soprannaturale. Sono complementari i due film, si muovono per figure, allegorie e, se letti insieme, costituiscono un primo compendio sullo stile del promettente Aster, una fenomenologia dei suoi incubi in movimento. Hereditary seguiva un tracciato più tradizionale all’interno del genere e, pur scegliendo strategie narrative e visive in controtendenza rispetto a coevi film dell’orrore (movimenti dilatati, nessun jumpscare), si cullava nel buio. Midsommar, invece, si mostra in piena luce, sotto un sole di mezzanotte che non tramonta mai e non lascia requie. Il primo, più cupo e tenebroso, è il negativo fotografico del secondo, che dopo un processo chimico esce dalla camera oscura abbagliando con le sue tonalità accecanti.
Prima una casa, poi un villaggio agreste. Ma non traggano in inganno gli spazi aperti e i prati verdi di Midsommar: ci sono meno vie di fuga nell’apparente idilliaca comunità di Hårga che nell’abitazione claustrofobica di Hereditary. Sono luoghi circoscritti all’interno dei quali si scatena l’inferno, un putiferio di grida, sangue, fuoco. Il montaggio e il sonoro (oltre alla virtuosistica regia, che non si lascia sfuggire piani sequenza e capovolgimenti della macchina da presa) sono gli strumenti che insieme costruiscono i luoghi dell’azione. Ogni stacco – curato da Lucian Johnston, già montatore del film precedente – è netto, secco e pesante come un colpo di martello, segnala un passaggio di tempo (notte/giorno), un cambiamento di spazio (interno/esterno), una nuova dimensione (sogno/realtà). In Midsommar, poi, la colonna sonora di The Haxan Cloak (nome d’arte del musicista britannico Bobby Krlic) fa da contrappunto al vortice di emozioni che esplode in ogni scena: i suoni sembrano tristi lamenti che restituiscono un senso di sospensione e sottolineano il disagio perturbante e il carattere grottesco intrinseco al film e allo stile dello stesso Aster.
Per arrivare finalmente al nocciolo di questo “folk horror d’autore” (etichetta, più o meno indicata, spendibile anche per il bel The Witch di Robert Eggers) bisogna seguire un indizio sonoro: uno scampanellio prontamente associato alla parola problematica e problematizzata del racconto: famiglia. Il cuore dei due lunghi di Aster è inabissato sotto foreste di simboli perversi (teste mozzate, corpi destrutturati) ma parla sempre di rapporti familiari: una maternità tormentata e una follia strisciante come eredità di sangue; una malattia mentale incontrollabile e una relazione di coppia anemica, ormai alla fine del suo ciclo. E in fondo tutti i rituali della festa di mezza estate celebrano la circolarità dell’esistenza (e della morte): per ogni vita tolta, ne viene concepita un’altra. E si ritorna al principio di tutto: la fine. Che è sempre un nuovo inizio, come l’ambiguo, bellissimo, sorriso liberatorio di Dani che, finalmente, ha trovato una famiglia.