Ultimo film del regista toscano Duccio Chiarini, L’ospite è inaspettatamente segnato, nel bel mezzo del racconto, dall’apparizione di Brunori Sas: il cantautore indipendente cosentino si esibisce in una camera da musica che è puro sogno, una rêverie romantica che punta i riflettori su Roberta e Guido, alla loro prima uscita di coppia dopo storie d’amore rivelatesi, per un verso o per un altro, vicoli ciechi. La performance di Brunori è tutto l’inverso del mondo di vite e rapporti umani ricreati dal film: diluisce, in un istante, le asprezze caratteriali sapientemente messe in scena, appiattendone l’ostica complessità emotiva. Per fortuna, il momento è un finto lieto fine che fa riguadagnare spazio, un attimo dopo la dissolvenza, alle paturnie dei protagonisti, sempre inseriti in una cornice tragicomica, da cui quasi sembrano dipendere: giovani non più veramente giovani che fanno i conti con le proprie scelte e tentano, ognuno come può, di rimescolare le carte in tavola e raggiungere uno sprazzo illusorio di vero sentire, di vita desiderata.
L’ambientazione sociale del milieu borghese romano è del resto quella probabilmente più vicina alla realtà del giovane regista, che in Hit the road, nonna aveva raccontato le vicende anticonvenzionali di una nonna indipendente alle prese con le memorie dei fasti della sua carriera passata. Guido, la sua famiglia e i suoi amici abitano case spaziose e ben arredate, e in alcuni casi sembrano essere inseriti in luoghi che vanno al di là delle loro possibilità economiche. Quest’ultimo è proprio il caso di Guido: ricercatore precario, decide di spostarsi a vivere da solo, dopo aver abitato in un enorme casa-giocattolo con Chiara, mentre è evidentemente in ristrettezze economiche. L’incoerenza potrebbe essere fine a se stessa, oppure nascondere la volontà del regista di risvegliare “l’onirismo comico” connaturato ai propri set, come già accadeva per cifre opposte, estive, in Short Skin, conferendo loro una nota di stile e una visione estetica fondamentalmente paradossale, ma, in verità, neanche troppo lontana dalla realtà: quanti sono, in Italia, i ricercatori attempati che continuano a gravitare nell’ambiente accademico appoggiandosi in gran parte sulle risorse economiche (tra l’altro a rischio esaurimento) della propria famiglia d’origine?
Il paradosso estetico e le sue astrazioni diventano più intense nella rappresentazione dello spazio che avvolge le peregrinazioni del protagonista. Siamo nel centro di Roma, la città è pittoresca in alcuni scorci passeggeri, ma risulta, al contempo, essenzialmente caotica, abbandonata a se stessa. Forte e netto il senso di spaesamento reso dai quadri di Guido che attraversa un breve tratto della stazione Tiburtina o che aspetta, per un tempo palesemente infinito, l’autobus sotto una pensilina nuova, ma già profondamente usurata e votata allo sfacelo. Guido, il primo di una galleria di personaggi sempre più sfaccettati psicologicamente, diventa a partire dalla propria condizione l’elemento dinamico e il punto di osservazione non solo della città, ma anche della vita dei suoi amici, dei famigliari, di chi, in un modo o nell’altro, entra a far parte del suo quotidiano in un’ineludibile, e dolorosa, fase di cambiamento sentimentale.
La rottura di una lunga storia d’amore, quella tra Guido e Chiara, è inscenata mediante la creazione metaforica di crepe e punti di rottura che alludono alle ferite del cuore di Guido, all’allontanamento forzato del protagonista dal vecchio se stesso, dalla vita sentimentale, lavorativa e anche famigliare alla quale pensava di essere votato. Chiara e Guido, avvolti in una nudità diafana, constatano con un’intensità sempre maggiore la fine spietata di un rapporto, tentando, al contempo, di rispettare con dignità le sue spoglie: un nostalgico e profondo affetto reciproco, il bizzarro legame tra ex, che Chiarini riesce a tratteggiare con delicatezza, senza cadere in plateali esplosioni di disperazione. Il vuoto creato nella vita del protagonista si dispiega in una discreta ansia tachicardica, ma anche nell’occasione di poter guardare meglio nella quotidianità degli altri, di comparare le relazioni (tutte potenzialmente critiche) ed esplorare, come il citato Palomar, i significati insiti nell’osservazione della realtà.
Spostandosi da un divano di un amico a quello di un altro, Guido è uditore di storie che, a partire da una base bozzettistica, diventano gradualmente sempre più autentiche e dettagliate, sempre più complesse. Ogni storia si schiude e guadagna veridicità psicologica a partire dai dialoghi instaurati tra Guido e i suoi conoscenti, tra quello che potremmo considerare un narratore-protagonista e le figure con cui si esprime un confronto quasi sempre frustrato. L’intimità dei dialoghi diventa il fulcro narrativo di un meccanismo virtuoso sia per la vicenda, sia per il valore complessivo del film, che fin dalla regia, spesso impegnata nel mettere in scena confidenze a due e conversazioni collettive, si presta a diventare metafora della necessità di uno scambio umano concreto, di un ascolto silenzioso dell’altro, finalmente gratuito, malinconicamente universale.