Non si può separare la produzione artistica di Giovanni Cioni dalla sua attività sociale, civile e umana. Tutti i film del cineasta toscano sono nati da un’esperienza esistenziale, allo stesso tempo professionale e personale, che lo portava a imbattersi e a seguire con attenzione segmenti marginali del presente. È «l’umano» ciò che interessa Giovanni Cioni nel corso delle sue esperienze cinematografiche, l’umano degli ultimi, siano essi il sopravvissuto di Dal ritorno, le anime sbandate di Per Ulisse, i fedeli senza nome di In Purgatorio o i detenuti di Non è sogno. È l’umanità delle persone perdute, un’umanità ritrovata attraverso il cinema.
In questo suo ultimo film il set di uno spazio cinematografico/teatrale diventa il luogo dell’epifania. Siamo in una prigione, dove il cineasta mette in scena uno spettacolo, nato dalla collaborazione fra il Laboratorio Nuvole e il carcere di Capanne (Perugia) e ispirato a Cosa sono le nuvole di Pier Paolo Pasolini e La vita è sogno di Pedro Calderón de la Barca. Qui, sullo sfondo del telo verde di un chroma-key, i detenuti provano delle scene, come il dialogo fra Totò e Ninetto Davoli nel film di Pasolini e alcuni frammenti del testo teatrale. Queste prove, dove gli attori improvvisano, si ripetono di ciak in ciak e diventano pian piano lo spazio in cui si innestano i loro racconti, le loro riflessioni e i loro sogni (solo qui sappiamo che sono detenuti, attraverso le loro confessioni alla macchina da presa), ma anche terribili storie di vita vissuta. Queste prove «di vita» dove ci si prepara a un ritorno alla «normalità» fanno emergere il rapporto dialettico fra il «dentro» concreto del carcere e il «fuori» sognato del mondo.
Un tale rapporto non è tuttavia lo spunto per gettare uno sguardo curioso e importuno nell’universo carcerario, ma piuttosto una spinta allo spettatore affinché permetta alla sua anima di entrare in sintonia. In questo film, come già accadeva nei precedenti, è attraverso i volti dei personaggi, il loro isolamento su sfondi più o meno neutri e i tempi che sono loro necessari per esprimersi, che la parola compie un percorso inverso, tornando alla sua radice, l’esigenza che la fa emettere dal corpo. Il volto come paesaggio su cui essa si muove e prende forma riconduce lo spettatore all’esperienza dell’altrove, qualcosa che esiste dalle origini del mondo. Perché cercare l’altrove non è mai stato solamente una questione di viaggiare, di percorrere lunghi cammini cercando luoghi e persone sconosciute. Cercare l’altro riporta sempre al cercare se stessi.
Per arrivare a questo «io» nascosto dietro quell’«altro» che mi parla dallo schermo, ci vuole una necessità, una fede, un desiderio assoluto di condivisione. La volontà di Cioni di costruire un’immagine attraverso la parola e il volto di chi la pronuncia rinvia alla possibilità di filmare il visibile per captare ciò che non lo è. Cioè filmare l’uomo per parlare di umanità, filmare la parola per captare il pensiero, il corpo per scorgere l’anima. [Luciano Barisone]
Arte e vita
Presentato nella sezione Cineasti del presente del Locarno Film Festival, Here for life è un racconto atipico e bizzarro della vita di dieci londinesi, ai margini della città e della società, nato dall’incontro tra la sensibilità cinematografica di Andrea Luka Zimmerman, da sempre rivolta ai temi della giustizia sociale, dell’emarginazione e dell’impegno politico, e l’esperienza teatrale di Adrian Jackson, fondatore del progetto Cardboard Citizens ed esperto del Teatro dell’oppresso.
Un gruppo di persone legate dall’amore e dal dolore, dall’ostinazione e dalla tenerezza si racconta, si interroga e discute le trame di un’esistenza segnata dall’ingiustizia e dall’oppressione, nell’inusuale cornice dei Nomadic Community Gardens, lungo le strade di Londra, fin dentro le loro abitazioni private. Genere, razza, discriminazione sociale, problematiche familiari sono alcuni dei temi affrontati con insolita leggerezza nel corso di una performance collettiva in cui una storia è lo specchio dell’altra e i ruoli si scambiano di scena in scena, al confine tra finzione e realtà.
Lontano da ogni patetismo o vittimizzazione, lo sguardo dei due autori segue complice le vicende dei protagonisti, restando fedele alla rappresentazione di una realtà marginale commossa, spregiudicata e libera. I processi di gentrificazione della società neoliberista mirano all’eliminazione sistematica degli spazi in cui resistono gli ultimi bastioni di comunità e condivisione. Nonostante ciò, Zimmerman e Jackson riescono a costruire con Here for life un luogo ideale in cui il dialogo rimane aperto e partecipato.
Il montaggio si dispiega in un’alternanza di toni e di stile, laddove il realismo quasi amatoriale della camera che segue passeggiate spensierate e intense confessioni è inframmezzato qua e là dagli interventi della direttrice della fotografia Taina Galis, che compone inquadrature più ricercate e teatrali. Il teatro d’altronde non è che un pretesto per la liberazione dai legami che incatenano l’intimo dei protagonisti, nonché un invito all’ascolto e lo strumento di un cambiamento per chi recita e per chi guarda. Il culmine catartico di questo spettacolo a cielo aperto viene raggiunto nella rappresentazione finale, una versione singolare e un po’ folle del capolavoro neorealista Ladri di biciclette.
Here for life è un inno scanzonato alla vita, che risponde con travolgente ironia e delicato lirismo all’esigenza di non arrendersi al soffocamento dell’ingiustizia sociale e dell’individualismo del mondo occidentale: nell’arte e nel cinema risiede la possibilità ultima di recuperare l’innocenza, viaggiando (e girando) sempre in direzione ostinata e contraria. [Carlotta Centonze]
BLOCCATI NEL MEZZO
Dopo aver dato scandalo nel mondo del cinema bulgaro con i film documentari Uncle Tony, Three fools and the secret service, la cui proiezione è tuttora vietata in Bulgaria, e The beast is still alive del 2016, film che affrontavano in maniera controversa le conseguenze e l’influenza del comunismo (e dei suoi servizi segreti) sull’attuale vita politica bulgara, Mina Mileva e Vesela Kazakova non perdono la sfrontatezza e il coraggio neanche con il loro primo film di fiction Cat in the wall, presentato nel Concorso internazionale.
Una donna avvolta in un cappotto rosso torna a casa, curva sotto il peso delle buste della spesa. I suoi passi risuonano nei corridoi della palazzina, qualcuno ha urinato nell’ascensore, lungo le scale un vicino la urta facendo cadere il contenuto delle buste sui gradini, tra le urla sguaiate dei due. Il pedinamento, i primi piani sofferenti sulla giovane, la fatica nella camera a mano inquieta fanno pensare ai classici del cinema della working class, da Loach ai fratelli Dardenne. Eppure, Cat in the wall svela fin da subito un’ironia delicata che sa sfumare il crudo realismo.
La donna è Irina, una madre single bulgara che vive con il figlio Jojo e con suo fratello in un quartiere periferico di Londra, dopo aver lasciato una Bulgaria divorata dalla corruzione in cerca di un futuro migliore. L’appartamento di Irina, costretta a lavorare in un bar per la difficoltà ad avere riconosciuto il titolo di architetto a Londra, è una vera e propria isola felice, dove la presenza del piccolo Jojo rischiara l’atmosfera di giocosa allegria, con la complicità della madre e la strampalata sbadataggine dello zio, insegnante di storia.
Tuttavia, appena varcata la soglia si è investiti da un uragano di disagio, squallore e rabbia, alimentato dalla gentrificazione che ingaggia i cittadini in una guerra tra poveri. La convivenza con il vicinato è faticosa ed esasperante, e i rigurgiti xenofobi in pieno clima Brexit non tardano ad arrivare, galeotto un gattino che, abbandonato, adottato e poi conteso tra Irina e un’altra famiglia finirà per rifugiarsi nel muro, dando inizio a una serie di vicende più o meno tragiche, in un crescendo di intensità che non perde mai la distintiva leggerezza.
Cat in the wall mostra così gli effetti di quella che è stata chiamata la “sindrome dell’idraulico polacco”, ovvero la paura e la diffidenza britannica nei confronti degli immigrati dell’est Europa (Irina lo rivendica con rabbia: “Noi siamo cittadini europei!”) che ha contribuito alla ricostruzione di barriere ideali tanto tra gli stati quanto tra Irina e le altre famiglie. A differenza di altri autori che hanno messo al centro la classe lavoratrice, il duo bulgaro evita di portare sulla scena gli outsider, dando voce a quella larga fetta di europei istruiti che cercano di condurre un’esistenza all’altezza delle loro aspettative. Rinunciando alle idealizzazioni, i protagonisti di Cat in the wall, vengono mostrati con franchezza nei loro lati peggiori, a ricordare che in un clima di sfiducia e di sospetto reciproco nessuno è escluso dall’errore.
Mina Mileva e Vesela Kazakova scelgono una rappresentazione sincera e insolita, ispirata da una (assurda) storia vera e che in questo caso trova nell’ironia la chiave per affrontare argomenti complessi, dipingendo un quadro più che mai lucido sulla situazione dell’Unione Europea, che altro non è che una palazzina i cui inquilini non riescono a mettersi d’accordo, e ognuno di noi è un gatto bloccato nel muro. [Carlotta Centonze]
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