Il dato reale dell’intimità e il dato intimo della realtà sono i punti cardine dal cinema di Claudio Giovannesi. L’Orso d’Argento per la migliore sceneggiatura vinto al Festival di Berlino 2019 con La paranza dei bambini è l’ultimo riconoscimento a un cineasta da sempre all’inseguimento di questo cortocircuito: compresenza di artificio autoriale e osservazione spontanea della realtà. In questo scambio si trova il punto di vibrazione del cinema del regista. E il volto dei suoi personaggi è il luogo di questo conflitto, il primo piano perfetto per liberarsi e incontrare un’altra intimità, quella della cornice naturalistica della Filmidee Summer School.
Nei tuoi tre film (Alì ha gli occhi azzurri, Fiore, La paranza dei bambini) le storie d’amore dei protagonisti hanno il tono disperato di una storia adulta, nonostante siano vissute da adolescenti. Questo genera un forte contrasto.
La posta in gioco della relazione sentimentale è altissima durante l’adolescenza, è una questione di vita o di morte perché non c’è la mediazione pensata e pensante dell’età adulta, che struttura e alleggerisce l’intensità giovanile. Quelle situazioni sono vissute dal punto di vista dei personaggi e quindi per loro sono fondamentali. La leggerezza è solo nel ricordo, mentre la vicenda si svolge in un presente caratterizzato dalla profondità, dalla passionalità e anche dalla brevità proprie dell’adolescenza. Quando faccio il film ascolto le storie di questi ragazzi e l’intensità deriva dalla natura anarchica e amorale di un momento che è pura scelta da compiersi.
Il volto è il punto di vibrazione del tuo cinema, il centro del tuo discorso, ed è la chiave di accesso all’emotività dei personaggi.
Il racconto del volto ti permette di avere un livello ulteriore di immagine. L’immagine diventa più intima, perché hai la possibilità di mostrare i sentimenti e quindi ti poni su un piano meno fisico e più immateriale. Questa è già una forma di approfondimento, non è un’immagine oggettiva, anzi, è soggettiva, risiede nel pensiero e negli stati d’animo. Il primo piano ti permette questo approccio.
Questo tuo punto di vista personale come si colloca invece nel contesto del cinema italiano?
So benissimo a cosa non sono interessato, detesto per esempio quando viene scimmiottato il cinema americano. Secondo me non è questo il mezzo per arrivare al pubblico, non dobbiamo essere la colonia dell’impero che riproduce formule estetiche che hanno inventato loro. Il pubblico ci deve essere, è imprescindibile. Bisogna pensare al cinema italiano come cinema europeo, non bisogna relazionare il film soltanto al proprio paese: è necessario per esempio trovare una coproduzione e pensare a una distribuzione internazionale. Soltanto così il proprio lavoro può assumere una forte identità.
A proposito di identità: con Gomorra hai avuto occasione di lavorare per la serialità. Qual è il tuo punto di vista sul suo successo? Non pensi ci sia un rischio di standardizzazione?
Il rischio delle serie televisive è l’esibizionismo della scrittura. Però il dibattito è aperto: Sorrentino ne elogia la libertà narrativa. Talvolta anche i lungometraggi hanno delle convenzioni: un contratto con una casa di produzione ti può obbligare a non superare le due ore. Mi auguro però che in futuro le serie dedichino maggiore attenzione all’immagine; al momento mi sembra che ci sia un predominio eccessivo della scrittura.
Quali sono invece i registi di oggi a cui guardi con ammirazione?
I registi più bravi del mondo secondo me sono Paul Thomas Anderson e Pawel Pawlikowski. Sono due esempi di mediazione perfetta tra la ricerca dell’immagine e il rapporto ideale con il pubblico. Ogni volta che fanno un film si vive un’esperienza. Mi piace moltissimo anche Andrey Zvyagintsev e ovviamente ho sempre apprezzato il lavoro dei fratelli Dardenne e di Kechiche, la cui influenza sul mio cinema è senz’altro presente.