La parzialità della prima immagine di Normal suggerisce l’impostazione interrogativa della sua ricerca estetica. Mentre un piano visuale in cui sono contenute tutte le informazioni è sinonimo di risposta affermativa, determinante e spesso giudicante, l’incompletezza di qualsiasi configurazione audiovisiva richiama l’altro e quindi dichiara la necessità di un approfondimento interpretativo in risposta. L’immagine del corpo senza testa di alcune donne incinta immerse nell’acqua è così la prima di molte domande caratterizzate (anche con intensità progressiva) da una mancanza che è ferita, mentre le due situazioni seguenti – il foro all’orecchio fatto per la prima volta a una bambina e la traiettoria della motocicletta di un bambino durante un gran premio in miniatura, ma vissuto con la stessa foga del mondo adulto – vengono affiancate secondo un principio di cortocircuito, creato come in filigrana. Situazioni contrastanti, che vanno dall’opposizione di genere a quella di senso, fino al parallelo ribaltato e all’ossimoro inconsapevole, sono giustapposte per generare un vuoto pneumatico in cui si inserisca la riflessione extra-diegetica.
Il lavoro di Adele Tulli si contraddistingue quindi per qualità del punto di vista: la sua produzione di senso esamina un problema attraverso un uso specifico e congiunto dell’inquadratura e del montaggio. Questa metodologia analitica a costruzione interrogativa non è solo interpretabile ma soprattutto interpretante, e non si interroga sulla genericità della realtà ma su un tema molto specifico: la rete di simboli impercettibili che sostengono i dispositivi sociali che conosciamo, i codici comportamentali e le leggi normative non scritte a cui si consegna la propria individualità più o meno consapevolmente. Le mastodontiche sessioni di yoga e i piccoli incontri per imparare a flirtare con le donne, i training sul linguaggio domestico perfetto e i corsi prematrimoniali condotti da preti performer sono proiezioni che vantano questo tipo di partecipazione psicologica. Le inquadrature di Normal però non esaminano l’ambiguità di questo nodo antropologico secondo quesiti monodimensionali: le rappresentazioni sopra citate condividono anzi uno status di potente complessità. La forza di una domanda deriva dalla prensilità con cui è capace di cogliere nel disordine visuale della realtà un tracciato, una forma in cui incanalare il tutto per ricomporlo da una prospettiva che lo rimetta in gioco su più piani.
In questo senso l’uso dell’immagine e del montaggio – che mantiene quasi per tutto il tempo il tono neutro e chirurgico dell’obbiettività, quando non diventa connotativo per produrre senso e propulsione drammaturgica – si rivela ancora più radicale, perché esprime nuove stratificazioni. In primis perché viene amplificato in profondità il discorso estetico sul corpo femminile mutilo – si pensi alle anatomie ritagliate dai primi piani al concorso di bellezza e allo spettacolo del mago – e in secondo luogo perché la regia rintraccia nel reale segni e comportamenti, ma soprattutto rivela sotto l’interpretazione legata alle differenze di genere la compresenza dell’atteggiamento performativo della società dei consumi. Le immagini di una fabbrica concentrata nella produzione di ferri da stiro rosa e trapani per maschietti o la circostanza di un incontro tra uno youtuber e le sue fan, dispensate con autografo e bacio serializzato, illustrano la pervasività con cui le strutture del capitale hanno straniato le azioni individuali.
Ogni inquadratura rintraccia quindi un’immagine già recisa e poi recide la pellicola in cui è imballato il reale, trovando, al di là della superficie composta da differenze sempre più evidenti nella forma, un comune senso di raccoglimento intorno al magnetismo dell’ansia del consumo e dell’appartenenza. Questa rivelazione, accentuata nel suo tono distopico dal sincronismo del gesto collettivo, riposiziona in una prospettiva ambigua anche la positività di un finale apparentemente speranzoso, in cui un’unione civile sembra rappresentare la possibilità di un orizzonte inclusivo. Il senso di questo evento è messo in dubbio da un’inquadratura-domanda – il taglio della torta, che lega consumo e spinta all’appartenenza – che somma le sfumature complessive del film. Concludendo, se mai è possibile, un procedimento estetico capace di descrivere senza didascalismi la realtà della normatività e la normatività della realtà.