Il cinema di Bonifacio Angius si muove in direzione contraria: si concentra sugli ultimi, sugli esclusi, all’interno di una provincia sarda arida e senza vie di fuga. Nel suo secondo lungometraggio Ovunque proteggimi, il regista ritrae due vite al limite. La Filmidee Summer School è stata l’occasione per incontrarlo, confrontarci con lui sulle sue passioni e sulla sua posizione nei confronti del cinema italiano di oggi.
In Ovunque proteggimi si sente una forte influenza del cinema americano degli anni ’70. Il film recupera l’elogio dei perdenti: una rarità nel cinema italiano di oggi, che sembra direzionato verso forme sempre più standardizzate. A tal proposito, come ti sei mosso a livello produttivo? Hai avuto difficoltà?
I produttori hanno letto nella sceneggiatura elementi standardizzati, su cui credevano di puntare, ma in realtà non sono mai stato interessato a un racconto prefabbricato. In questa incomprensione si sono innamorati della storia. Da parte mia, ho realizzato il sogno di mettere nello stesso film tutti quegli elementi espressivi che mi hanno fatto innamorare del cinema da adolescente. Penso, ad esempio, al melodramma o, addirittura, ai cartoni animati giapponesi, che contengono qualcosa di tragico e shakespeariano e che oggi, proprio per queste ragioni, vengono vietati ai bambini.
La componente musicale è molto rilevante nel film, elemento tipico della New Hollywood. Oltre a quel cinema quali sono i tuoi riferimenti?
Ho sempre desiderato realizzare un film con una colonna sonora forte. Il mio modello, seppur irraggiungibile, è la maniera in cui la musica viene utilizzata nel cinema di Scorsese, per esempio in Casinò. I miei riferimenti sono spontanei; riguardano principalmente i film che ho amato durante l’adolescenza: i primi Fellini, soprattutto Le notti di Cabiria, Toro scatenato, Un uomo da marciapiede. Da bambino ero davvero fissato con Rocky. Sono sempre stato affascinato dall’uomo comune che cerca disperatamente un motivo di riscatto. Amo quei film che compongono un anello di congiunzione tra l’aspetto autoriale e la capacità di dialogare con il pubblico.
Negli ultimi anni si sono affermati registi sardi come Salvatore Mereu e Paolo Zucca. Ti senti di appartenere a un movimento autoriale legato alla tua terra?
Sono amico di molti registi sardi, ma di certo non mi sento di appartenere a un movimento sardo; non mi va di essere etichettato, preferisco sentirmi parte del mondo intero e non ridotto a un’area cinematografica, che si sente unificata nell’orgoglio sardo. Il cinema italiano contemporaneo non mi piace. Quando mi capita di vedere qualche film, tendo a incazzarmi, perché spesso mi ritrovo davanti a lavori dopati e fasulli. Di solito si tratta di film sensazionalistici e che fanno leva su un tema ideologico, disprezzano e mancano di rispetto a delle particolari situazioni umane. Credo che sia stupido pensare di fare un film solamente su un tema, ma che sia importante rappresentare ciò che fa parte di noi e che potrebbe succederci. È necessario mantenere onestà e rispetto nei confronti dei personaggi che portiamo in scena.
Sembra che tu non sia appassionato del cinema di denuncia civile.
Detesto fare film contro qualcuno. È cinema: bisogna vedere il racconto, leggere il romanzo e seguire la storia. Imparare a immergersi. I miei non sono film di denuncia, ma film su dei personaggi. Penso, ancora una volta, a Toro scatenato, che è la storia di un uomo autodistruttivo e non di certo il film sul tema della corruzione nel mondo della boxe.
In Ovunque proteggimi non rinunci a situazioni comiche, nonostante la drammaticità rappresentata.
Sono un amante di Troisi, per me è un autore importantissimo. Cerco continuamente la comicità, anche nelle scene più drammatiche, che spesso sono quelle che mi fanno sbellicare dalle risate. Anche in questo caso alcune scene di Toro scatenato per me restano dei riferimenti. Non sono un sadico, ma credo che nella violenza sia insito il ridicolo, ogni scena deve avere un punto di ironia.
Il tuo stile di regia è essenziale, ma sempre funzionale alla narrazione.
Davanti all’opera cinematografica bisogna sentire qualcosa, provare un coinvolgimento emotivo e un interesse. Lo stile è subordinato al sentimento, è il modo in cui io riesco a farti arrivare un’emozione, una vibrazione, una sensazione sgradevole o piacevole. Lo stile non è la bella inquadratura. L’estetica di un film non è solamente il bilanciamento di un’immagine, ma anche l’onestà politica, il rispetto e l’amore con cui si affronta un tema umano.
(Intervista raccolta in occasione della Filmidee Summer School 2019, realizzata con il sostegno della Fondazione Sardegna Film Commission)