Abbiamo colto l’opportunità della Summer School 2019 per fare quattro chiacchiere con il regista friulano Alberto Fasulo, al suo esordio nella finzione con Menocchio, in concorso al Festival del Film di Locarno del 2018, e con la sua compagna e produttrice Nadia Trevisan.
Alberto, nella tua produzione pensiamo di poter riconoscere un certo “trasformismo stilistico”. Sei d’accordo con questa definizione? Da cosa pensi che scaturisca?
Parlerei di evoluzione, più che di trasformismo stilistico. Per me il cinema è uno strumento di conoscenza e un modo di vivere, una scelta di campo lavorativa che influisce sulla tua vita e su come ti relazioni ad essa: io non faccio il mio mestiere solo quando ho una camera in mano. È come se stessi sviluppando un linguaggio che si evolve mentre lavoro. La mia presa di coscienza è in primis nella scelta ogni mattina di continuare a fare cinema, cosa che non do per scontato. Voglio sentirmi libero di anche di fare altro. Piuttosto che fare dei film solo per comprarmi il pane, preferisco lasciare spazio a chi invece ha delle esigenze più interessanti.
Quali sono i registi contemporanei, italiani e non, e i film che ispirano la tua produzione?
Per me ogni film corrisponde a un momento della propria vita, quindi non c’è un un regista che io ritenga sempre interessante. Stimo molto Michelangelo Frammartino e Pietro Marcello, ma non c’è un film in particolare che mi abbia colpito. Mi sono piaciuti molto Estate Romana di Garrone e Cesare non deve morire dei fratelli Taviani, due film che mi hanno aperto la strada. Non ho mai pensato di fare un mio film avendo in mente qualcun altro, né ho mai trovato un film altrui che avrei voluto fare io. Nella follia mi sono detto che con Marcello, il protagonista di Menocchio, vorrei fare il remake di Aguirre – furore di Dio perché mi piacerebbe molto come avventura e sarebbe interessante da fare oggi, ma significherebbe rifare il film di un altro.
Ci è sembrato di notare delle forti similitudini tra il personaggio di Menocchio, eretico in lotta contro i dogmi della tradizione, e il tuo modo di fare cinema. Ti sei mai trovato, come Menocchio, a scontrarti con un potere che abbia messo in discussione la tua libertà creativa o d’espressione?
Io ho il mio modo di fare cinema, nessuno me l’ha mai negato. Non ho mai avuto a che fare con finanziatori, film commission o editor che mi costringessero a fare le cose in maniera diversa. Per me “scegliere” è una parola fondamentale, cerco sempre di instaurare delle relazioni e fare delle scelte che siano in linea con le mie necessità e i miei desideri. Non mi ritengo un eretico del mestiere, o meglio, se lo sono è perché tutti coloro che lavorano ai miei film sono eretici. Non mi interessa nemmeno essere “eretico” rispetto all’altra parte dell’industria cinematografica, perché credo che tutti abbiano diritto d’esistenza, e che il pubblico debba poter avere un “menù completo” da cui scegliere.
Il film è stato realizzato nell’ambito di una co-produzione italo-romena. Una scelta comprensibile in un contesto italiano in cui fare film non è scontato. Nadia, anche tu, in qualità di produttrice, sei indirizzata verso questa strada?
Tutti i film che produco, anche per altri registi, sono frutto di una co-produzione . Si tratta di film difficili e trovare fondi in italia è altrettanto difficile. Ho la fortuna di essere dislocata in una regione di confine, il Friuli, posizione che mi permette di avere rapporti facilitati con i miei vicini, come la Slovenia, la Croazia, la zona balcanica, ma anche, ad esempio, l’Austria e la Svizzera. La co-produzione è al contempo una necessità e una possibilità, la possibilità di accedere a un confronto fuori dall’Italia, sia per i registi che per i produttori. È un modo vero e proprio di fare cinema, che presuppone una comunanza di intenti.
Alberto, tu sei d’accordo con quanto detto da Bonifacio Angius sulla necessità di “educare” lo spettatore, traghettandolo gradualmente verso il cinema autoriale?
Io non sono d’accordo con le categorie in generale. Per esempio io potrei ritrovare me stesso in una scritta sul muro fatta da un qualche incosciente e considerarla poesia, oppure annoiarmi leggendo Dostoevskij. Lo stesso vale per il pubblico, tutto dipende da come approccia un film. Non credo che il mio cinema sia più autoriale o più commerciale di altri. Mi sembra una distinzione fine a se stessa che sposta l’attenzione dal film e il suo racconto. Poi posso dire la verità? A me stressa andare ai festival, fare sequele di interviste che mi rimbecilliscono e in cui finisco per dire sempre le stesse cose. Questo bisogno di essere riconosciuti è una malattia del nostro tempo. Per me l’importante è che un film esista. Prima o poi qualcuno lo vedrà. Quando faccio un film, chiedo a me stesso di farlo al meglio delle mie possibilità. Poi mi domando se io sia riuscito davvero. E se non riesco a darmi una risposta aspetto, la cerco. Quello che mi dà un film quando si materializza la realtà, quando la realtà a un certo punto mi parla, per me è necessario.
(Intervista raccolta in occasione della Filmidee Summer School 2019, realizzata con il sostegno della Fondazione Sardegna Film Commission)