Si distinguono poche parole, e ancora meno dialoghi, nell’opera seconda di Laura Luchetti. Gli scambi verbali sono spesso essenziali, incisivi, a tratti persino bruschi. La loro funzione è più contestualizzante che pienamente comunicativa, più ancorata a esigenze realistiche che a pregnanti manifestazioni di soggettività. Il film pare insomma ammantarsi di un mutismo che, nel corso della visione, si configura come racconto sospeso e rarefatto, finemente cesellato nella raffinatezza di immagini che non si riducono mai a meri virtuosismi, fungendo piuttosto da strumenti espressivi di una poetica della delicatezza.
Delicatezza e fragilità sono, nondimeno, le componenti umane che vengono amorevolmente intrecciate in Fiore gemello, un’operazione di misurata semplicità presentata nella sezione Discovery del Toronto International Film Festival 2018, dove ha ricevuto una menzione d’onore. Si tratta di un atto colmo di tenerezza, un gesto non dissimile da quello con cui il giovane migrante ivoriano Basim coglie dei fiori di campo e li trasforma in un braccialetto per Anna, silenziosa ragazza incontrata durante il suo vagabondaggio nella Sardegna rurale. Soli e spaventati, in bilico tra un passato traumatico e un futuro incerto, i due giovani intraprendono un faticoso viaggio in cui l’instaurarsi di un legame relazionale non si esaurisce in dinamiche affettive, ma matura in quanto frutto di un confronto empatico con l’altro. L’italiano di Basim è lacunoso mentre Anna, scioccata da un evento che l’ha spinta a una fuga disperata, si è volontariamente chiusa in un mutismo che pare diffondersi alle modalità con cui il racconto si dischiude. Eppure, proprio come i silenzi del film di Luchetti, l’afasia della giovane non è mai ostacolo alla comunicazione interpersonale o alla definizione di un rapporto: diviene piuttosto uno strumento linguistico fondato sulla capacità di percepire l’altro, il tutto a partire da un sentimento di comunione che fiorisce nella comprensione delle rispettive ferite. Come se la narrazione volesse testimoniare, a partire dal suo stesso comporsi, la possibilità di accedere a un modo alternativo di entrare in relazione, una via di contatto in cui all’ascoltare si sostituisce il sentire, l’essere sensibili a quei delicati moti interiori che, nella loro universalità, accomunano tutti gli uomini.
Il viaggio di Anna e Basim è esattamente questo: un toccante incontro empatico tra due anime fragili che, intrecciandosi, erigono un baluardo di resilienza in un paese per lo più crudele, indifferente, intollerante. Eppure, anche in mezzo a tanta asprezza, la macchina da presa pare non potersi esimere dal disvelare una bellezza dimessa. La fotografia di Ferran Paredes Rubio asseconda l’intimità di primi piani e dettagli, la morbidezza delle sfocature, i lievi sussulti della macchina a mano e la raffinatezza compositiva dei totali: il tutto confluisce in un affettuoso moto di valorizzazione dell’umano e delle sue fragilità, producendo un’enunciazione filmica che coinvolge lo spettatore nei suoi processi sensibili.
Al centro di Fiore gemello sta infatti la necessità di condividere una disposizione affettiva che trascenda la semplice solidarietà, virando piuttosto verso l’intelligenza emotiva, l’autocoscienza interiore, la consapevolezza del proprio e dell’altrui sentire. La Sardegna che fa da sfondo alle vicende di Anna e Basim si dilata in uno scenario sociale tristemente riconoscibile, un universo che rigurgita violenza, omofobia, razzismo, traffici di esseri umani, sfruttamento sessuale. Un universo individualista in cui la solitudine non solo è elemento ricorrente ma persino motivo di vanto per chi si colloca in cima a una spietata catena alimentare. E nonostante ciò (anzi, forse proprio per questo), il delicato sguardo di Luchetti si incarna nei protagonisti del film, plasma l’esperienza filmica dello spettatore e si sviluppa in un itinerario che, seppur snodandosi in uno scenario arido, attraversa delle oasi di speranza.
Tra queste vi è il giardino dove avviene il confronto tra l’anziano fioraio (che ha dato lavoro ad Anna) e il crudele trafficante di esseri umani, Manfredi, in uno dei pochi veri dialoghi del film: se il secondo trova inutile provare pietà di fronte alle cose delicate, il primo ne ha fatto il suo mestiere. La floricoltura, in definitiva, appare un atto di resistenza alla crisi sociale dilagante, una proposta di futuro perseguibile attraverso l’appigliarsi a “ciò che inferno non è”, per dirla con Calvino. O, direbbe forse Laura Luchetti, come apertura della propria sensibilità alla fragile bellezza dell’umano.