Esordio nel lungometraggio di Micol Roubini, La strada per le montagne immerge lo spettatore nella realtà di Jamna, Ucraina, alla ricerca di una casa appartenuta al nonno, vista soltanto in una fotografia datata 1919 e avvolta da un mistero che l’autrice cerca di svelare, scontrandosi con la chiusura e le reticenze di una popolazione ancora intrappolata nel ricordo dell’Unione Sovietica. Così questa ricerca diventa un racconto dai toni cupi, noir, riflettendo la situazione ucraina presente, ma guardando anche al suo passato. Ne abbiamo parlato con l’autrice in occasione della presentazione del film a IsReal Festival.
La strada per le montagne è il tuo primo lungo, e al contempo muove da una vicenda molto personale.
Tutto parte dal ritrovamento di una fotografia, anche se il film è venuto molto tempo dopo. Ho ritrovato queste fotografie e questi documenti e ho provato un senso di vuoto proprio perché mi erano stati tenuti nascosti per così tanto tempo. C’è stata una iniziale curiosità, mi sono detta: vado in questo posto e cerco questa casa, vediamo se c’è, ma non avevo in mente di farne un film, poi sono arrivata lì e mi sono ritrovata di fronte al fatto che la casa molto probabilmente c’era, ma non era accessibile. Ho cominciato a fare domande con questa fotografia in mano in un territorio molto piccolo, supponendo che chiunque sapesse tutto di tutti, invece nessuno aveva la più pallida idea di cosa ci fosse in quest’area recintata. Proprio questa resistenza iniziale mi ha motivata a dire raccontiamo questa cosa in un film.
Guardando il film si percepisce chiaramente ostilità da parte della popolazione locale, come avete vissuto l’esperienza di girare un film in un clima simile?
Quello che la gente del posto proprio non riusciva a spiegarsi era il fatto che volessimo fare solo un film. Dopo poco tempo tutti sapevano che ero la nipote del proprietario di questa casa e si cominciava a pensare che volessi riappropriarmi di qualche cosa che era stato mio. A un certo punto abbiamo un pochino tirato la corda cercando di trovare dei modi per entrare in questa proprietà e in quel momento ci sono arrivate anche delle minacce di morte. Le ultime settimane che stavamo là, avevamo tutta l’attrezzatura in macchina: se non fosse stato per la benevolenza delle pochissime persone amiche forse avremmo subito violenze, magari non direttamente sulla nostra persona… ma sarebbe stato molto facile che qualcuno venisse e ci spaccasse tutto, mandando in fumo il lavoro di mesi.
È molto interessante il modo in cui scegli di utilizzare il voice over, da dove viene questa scelta e con quali riferimenti letterari e/o cinematografici?
Io non amo le voci off in generale, non mi hanno mai soddisfatto. Mi divertiva l’idea di provare a fare qualche cosa di diverso, non incasellabile, ma che avesse una matrice letteraria perché la mia idea era che questo dovesse essere un racconto, quasi una fiaba. Un riferimento cinematografico ce l’ho ed è un film di João Pedro Rodrigues, L’ultima volta che vidi Macao, un film incredibile, molto diverso dal mio, ma in cui c’è questa voce off libera. Poi ci sono altre mille cose che si sovrappongono, altro riferimento cinematografico anche se non diretto è Chantal Akerman. C’è stato anche un libro di Vasilij Grossman (Tutto scorre… ndr) da cui è presa la citazione che si trova alla fine del film. Però nel complesso è stato un lavoro piuttosto libero: c’è stata una prima scrittura a flusso e poi chiaramente siamo andati a limare e perfezionare il film.
Quali senti siano le differenze rispetto ai tuoi lavori precedenti?
È stata una cosa completamente diversa, ma per una questione molto semplice: io vengo dall’arte, quindi qualunque progetto, per quanto impegnato fosse, aveva delle durate molto ridotte. Il che da un lato è bello perché non diventi ossessivo, ma dall’altro ti permette di andare molto meno al fondo delle cose, quindi questo è stato uno dei processi più impegnativi e faticosi della mia esperienza, anche perché riguardava una questione familiare. Però è stato molto interessante andarsi a confrontare con la Storia con la s maiuscola, è stato stranamente arricchente, un’esperienza dolorosa ma incredibile.
Pensi che un tuo nuovo approccio al cinema possa venire solamente da un’esigenza altrettanto forte?
Sono sicura di una cosa: liberatami dalle questioni personali, vorrei fare qualche cosa di molto militante. Credo di aver capito che confrontarsi, anche partendo da una situazione marginale, con qualcosa che veramente provi a sollevare dei problemi o delle contraddizioni, sia molto importante in questo momento storico. Vorrei ripartire da qui. Prescindere da questo mi parrebbe un’operazione un po’ vuota.