Ospite della quarta edizione di IsReal _ Festival di  Cinema del Reale (Nuoro, 7-12 maggio 2019), Claire Simon ha presentato quattro film che raccontano, in un ritratto dolceamaro e lontano da stereotipi, le tappe – obbligate – di crescita che scandiscono il rapporto tra i giovani e la società. Si parte da Récréations (1992), girato nel cortile di una scuola elementare, passando per 800 kilomètres de différence (2000) che racconta la prima storia d’amore di Manon, la figlia della regista, per poi finire nel mondo degli adolescenti con Premières solitudes (2018) e Le Concours (2016), girati rispettivamente tra i banchi di un liceo della banlieue parigina e nelle torme di candidati dello spietato processo di selezione per accedere alla prestigiosa scuola di cinema della Fémis.

Abbiamo incontrato la regista per parlare del suo metodo, fatto di curiosità e scoperta, e di quanto sia importante per il cinema contemporaneo – del reale, ma non solo – rifarsi alla lezione dei fratelli Lumière.


Sei ospite di un festival dedicato al “cinema del reale”: come il tuo cinema si approccia al mondo che ti circonda?

Mi piace cambiare metodo ogni volta che filmo. A differenza di registi come Wiseman che hanno sempre lo stesso metodo – stupendo e radicale, ma sempre identico – dove non c’è storia e non ci sono personaggi principali, io sono molto interessata alle storie. E le mie storie non sono un’essenza, un’eternità sospesa nel tempo, ma cambiano e si trasformano. Ciò che cerco di fare è trovare un nuovo asse narrativo perché le storie appaiano in maniera diversa da come ci sembrano normalmente. Il territorio e lo spazio hanno un ruolo privilegiato nel cinema documentario: se nella fiction si segue un personaggio o un’azione, e quella è la storia che si sta raccontando, nel cinema del reale le storie esistono già in un contesto, sono lì “pronte” nella loro eroica drammaticità, come in Sofocle.

Nei film ospitati in questa retrospettiva si parla spesso di rapporti tra mondi differenti: quello dei giovani e degli adulti, dei bambini, degli studenti e dei professori. Cosa t’interessa di queste relazioni?

Cerco di rappresentare aspetti diversi da quelli riconducibili agli stereotipi: il modo in cui si rappresentano gli adolescenti è la ribellione, ma in Premières solitudes si mostrano ragazzi che fanno discorsi seri e profondissimi, che piangono e si confidano, ed è esattamente il contrario di quello che ci si potrebbe immaginare da un gruppo di liceali. Mi interessa molto comprendere il punto di vista di ogni persona, il suo dramma, le sue idee, mettermi al suo posto. Uno dei grandi piaceri del cinema documentario è proprio cercare di comprendere la logica delle persone e delle storie che si scoprono. È un lavoro da romanziere, mi sento come Flaubert che ogni giorno incontra una Madame Bovary.

Che rapporti hai con gli attori, sia nel tuo cinema documentario che in quello di fiction?

Solitamente non fornisco grandi indicazioni ai miei attori, ma non mi sembra che se ne preoccupino molto, perché capiscono che stiamo facendo tutti la stessa cosa e sono tranquilli. Lo stesso vale per il documentario: non è semplice osservazione ma una sorta di “ciné-trance. C’è un momento in cui sia io che gli attori capiamo che si sta facendo una cosa che è più grande sia di me che di loro, e che non è né per me né per loro, ma per qualcun altro. È fare un film. Come nella musica e nel teatro si fa qualcosa insieme destinato ad altri. C’è, alla base di questo, un rapporto di confidenza e una “giusta distanza” da tenere, ma soprattutto l’idea che il regista ha sempre qualcosa da apprendere da ogni situazione. È un rapporto attivo: trovo più interessante pensare che chi è in scena sappia più cose di chi lo filma. Credo che nella vita non ci si debba interessare alla propria posizione, ma capire che è da fuori che viene il sapere, e per questo mi piace pensare a un “cinema dell’ascolto”. È talmente appassionante fermarsi ad ascoltare le storie degli altri, bisogna saperne approfittare.

In un mondo dominato dal visuale e dalla comunicazione, quale credi possa essere il ruolo delle scuole di cinema?

Oggi in una scuola di cinema, non importa di quale ordine e grado, si fanno essenzialmente due cose: si guardano film che si discutono insieme e si fanno esercizi pratici di cinema con l’aiuto di chi di solito i film li fa e con la consapevolezza di ciò che si è guardato. È un “aller-retour” tra Storia del cinema e pratica. Un esercizio che amo molto e faccio spesso fare ai miei studenti è il “minuto Lumière”: si ripassa per l’esperienza tecnicamente forzata e artificiale che fu dei fratelli Lumière cercando di guardare i loro film oggi come furono visti all’epoca, con questa idea molto bella che è di un mondo che non è mai stato filmato e che era ancora tutto da filmare. Quei filmati ci raccontano molto più di ciò che vediamo: l’inquadratura, la scelta del momento in cui iniziare, la scelta del soggetto. Gli studenti si confrontano con le stesse questioni, le stesse scelte, e si domandano come il loro minuto può raccontare il mondo ed essere un momento del mondo, raccontando una storia dove anche se non succede nulla, succede qualcosa. Credo che tutti i giovani che fanno un film per la prima volta dovrebbero filmare il mondo con gli occhi dei Lumière. È l’inizio del cinema e a studiarlo c’è già dentro tutto, tutte le grandi decisioni sono già lì: quale inquadratura scegliere, in quale momento prendersi il rischio di cominciare per raccontare qualcosa, c’è tutta l’idea della concisione della rappresentazione che il cinema può esprimere. Si tratta della tradizione antica della messa in scena, del controllare senza controllare, perché si decide un’inquadratura e un momento di inizio, ma ciò che immaginiamo succeda poi è una scommessa. Quello che è interessante è che misuriamo ciò che il cinema fa da solo. E che poi possiamo modificare, come nella Démolition d’un mur (1896). È molto difficile fare un bel “minuto Lumière”. Ho uno studente a Cuba che mi dice che non riesce a pensare se non in “minuti Lumière” e fa dei lavori bellissimi. C’è l’idea di cogliere un’immagine del mondo in un’inquadratura, con tutta la vita prima e tutta la vita dopo. E ciò di cui ci accorgiamo guardando i filmati dei Lumière è che la volontà di messa in scena risulta spesso patetica se messa a confronto con il cinema documentario. Prendiamo ad esempio L’arroseur arrosé (1895): è uno sketch ridicolo messo di fianco all’arrivo del treno alla stazione di La Ciotat. L’idea di un treno che arriva da lontano, la gente che scende, le differenze di classe, l’idea di vacanza. Per me è come un pezzo di Proust o di Flaubert.

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