Se c’era un anello mancante tra le domande suscitate nei soldati dalla guerra di La sottile linea rossa e gli interrogativi legati al mistero della creazione di The Tree of Life, ecco che A Hidden Life – capolavoro in Concorso in questa edizione di Cannes – assolve al ruolo di cerniera rispetto al dispiegamento della duplice ricerca umana, scandaglio dell’intimità al confronto con la Storia.
Il nuovo film di Terrence Malick mette in scena la vita di uno dei tanti dissidenti del Nazismo, uomini le cui scelte e sacrifici non hanno cambiato il corso del secondo conflitto mondiale o arginato l’ascesa di Hitler ma hanno generato dubbi e domande in coloro che gli stavano intorno. Franz è un semplice contadino, un uomo probo che regge con saldezza la famiglia e gode il rispetto del piccolo villaggio montano in cui vive, ma la sua radicale opposizione al saluto nazista lo porterà a una progressiva esclusione dalla società.
Narrato attraverso le lettere che i due coniugi si mandano nel corso della tormentata vicenda dell’uomo, incarcerato e condannato a morte, il film segue la via crucis di un individuo tanto saldo nella sua adesione alla verità da far traballare i vertici della Chiesa e delle istituzioni politiche con cui si confronta, rivelando il lato nascosto del potere umano, condensato nella pura condotta morale. La “giustizia” della sua scelta lo rende un personaggio privo d’evoluzione – caratteristica che lo riconnette più ai primi personaggi di Malick che non agli uomini in crisi degli ultimi film – mentre attorno a lui saranno gli altri a cambiare, rivelando il lato più fragile di sé, che siano le lacrime del vescovo o le mani agitate di un giudice nazista dal volto tormentato di Bruno Ganz (nuovo Ponzio Pilato in questo Vangelo novecentesco).
Ma la saldezza di Franz deriva in primo luogo dall’esperienza dell’amore assoluto, quello al cuore della religione cattolica, che costituisce la sua “vita nascosta” in cui ha fatto esperienza di una libertà di scelta totale sorretta dallo sguardo amoroso della moglie. Per questo è proprio la giovane sposa a essere individuata dagli altri (la madre, i compaesani) come nemica: una persona capace di donare un affetto incondizionato e di far germogliare una scelta etica che sfida la ragionevolezza. Il sacrificio di Franz è inutile, eppure è un richiamo a una vittoria dell’etica su ogni struttura storica, che non può non porre interrogativi profondi anche nel nostro misero presente.
Meno radicale che negli ultimi film, ma non meno potente nel dare vita a soluzioni visive straordinarie (come la folgorante processione verso l’esecuzione finale, dove ogni percezione della gravità sembra andare perduta), Malick realizza un’ode all’uomo retto, che sfruttando visivamente una poeticità bucolica ha la forza di trasformarsi in una vicenda atemporale, in cui la prospettiva storica è sottomessa a quella etica, sorretta dalla potenza liberatrice ed eversiva dell’amore. [Daniela Persico]
A FUOCO LENTO
Al terzo film, Olivier Laxe torna nella sua terra d’origine, la Galizia, per realizzare un’opera contemplativa e sospesa, di sottrazione, nella quale ciò che non si sa o non si può dire costituisce il nucleo più profondo della verità che lega un popolo alla geografia del proprio paese. Zona di fuochi, la regione spagnola è caratterizzata da una vegetazione selvaggia e da una natura al tempo stesso dolce e respingente, simile all’attitudine delle persone che la abitano. Volti rugosi e bruciati dal sole come quelli del protagonista Amador e di sua madre Benedicta: il primo, accusato di aver appiccato un incendio, fa ritorno al villaggio dopo aver scontato la pena; la seconda lo accoglie senza battere ciglio, e si dedica con lui alla cura delle poche mucche che possiede. Tutt’intorno una comunità sparuta di contadini e allevatori dalla vita lenta e pensosa. Così come il ritmo del film, dove gli accadimenti minimali conducono lentamente verso un finale che sa di apocalisse.
Presentato in Un certain Regard, O que arde nasce come i due precedenti Todos vós sodes capitáns (2010) e Mimosas (2016) dall’incontro tra il regista e i personaggi che diverranno protagonisti della storia da raccontare, secondo una pratica fortemente radicata nel “cinema del reale”: il film si fa rivelazione dell’esistente e non lo presuppone. Torna anche il tema dell’innocenza (i bambini del primo film, il personaggio di Shakib nel secondo): qui un uomo di poche parole, colpevole agli occhi di tutti e destinato a fare da capro espiatorio per l’inspiegabile a cui bisogna dare un nome e attribuire un significato – in questo caso una responsabilità e una colpa. L’andamento divagatorio e apparentemente statico della sceneggiatura scritta dal regista con Santiago Fillol muta nel corso dei venti minuti conclusivi, spalancandosi a un tour de force visuale in cui si celebrano la forza e il terrore del fuoco, irradiati sullo schermo dalla magnifica grana del 16mm. E ancora una volta il reale prende il sopravvento: dopo aver dettato i tempi di una lunga attesa al cineasta in un’estate particolarmente piovosa, un incendio di maestose proporzioni lo chiama finalmente al confronto con il destino desiderato per la propria opera.
E come nel bellissimo Border dell’armeno Khachatryan, il fuoco libera e distrugge allo stesso tempo, in un finale solenne che cede il passo all’espiazione ma anche alla sua impossibilità, perché ancora una volta il cinema non può che arretrare di fronte all’inconoscibile, fermandosi sulla soglia dell’indicibile, oltre la quale ogni ricerca di senso – e di messa in scena – resta sconfitta. [Alessandro Stellino]
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