Quando, sei anni fa, venne presentato in concorso a Cannes La vita di Adele, nessuno immaginava che tipo di film sarebbe stato: non circolavano trailer o estratti, solo un manifesto che ritraeva un’inedita Léa Seydoux dai capelli celesti. Si sapeva che il film era un adattamento del graphic novel di Julie Maroh Le bleu est une couleur chaude ma niente aveva preparato all’intensità delle scene di sesso tra le due giovani protagoniste. Era stato il film scandalo non annunciato, poi premiato con la Palma d’Oro. Due anni fa, nessuno era in grado di dire se il regista di Mektoub, My Love: Canto uno avrebbe presenziato alla conferenza stampa dopo la proiezione del film al Festival di Venezia: Kechiche aveva fatto sapere che avrebbe deciso all’ultimo, e solo all’ultimo chiese un’auto che l’andasse a prendere in albergo per recarsi all’appuntamento con la stampa.
Ora, il secondo capitolo della trilogia ispirata (molto liberamente) al romanzo La ferita, quella vera di François Bégadeau arriva sulla Croisette avvolto dal mistero: si dice che la durata di quattro ore riportata su catalogo e programma di sala sia indicativa, perché nessuno ha visto il film finito. Circolano voci di tutti i tipi: la più vicina alla verità sostiene che tre delle quattro ore siano ambientate in discoteca, l’ultima zeppa di sesso. A fine proiezione il film taglia il traguardo delle tre ore e venticinque: la prima mezz’ora ha luogo in spiaggia – è tarda estate –, le successive sono un sudatissimo tour de force sulla pista da ballo interrotto solo da un’intensa scena di sesso (dodici minuti) nei bagni del locale. Infine un breve momento di intimità che si ricollega all’altrettanto breve prologo, in cui lo sguardo di Amin e dello spettatore sono programmaticamente chiamati a coincidere.
Applausi cauti, pubblico per lo più esausto, stremato dal ritmo ininterrotto e martellante della musica disco che costituisce ben più della colonna sonora del film: ne è il battito cardiaco accelerato, il respiro continuo, talvolta trattenuto e sospeso, talvolta travolgente fino all’ansimo. C’è un notevole lavoro di scomposizione del sonoro che rispecchia l’esperienza emotiva della notte in discoteca, il crearsi di bolle di silenzio nel frastuono più assoluto, l’isolarsi di due o più individui nella mischia, le parole urlate all’orecchio per sovrastare la musica, l’intimità dei corpi nel tripudio collettivo. Quasi una versione espansa, dunque, della lunga sequenza in discoteca di Canto uno – poi tagliata per la distribuzione in sala –, apice estatico dell’apprendistato allo sguardo e alla beltà femminile del giovane Amin, appassionato di fotografia e sceneggiatore in erba.
In un’intervista pubblicata sul settimanale francese Les Inrockuptibles, Kechiche all’epoca di Canto uno aveva scansato le accuse rivolte a un’opera intrisa di “male gaze” – lo sguardo maschile che reifica la donna – rispondendo di non sapere cosa fosse; accusa infondata, in quel caso – nei confronti del precedente La vita di Adele qualche dubbio lo si può avere – dato che il “male gaze” è fulcro del film stesso, esplicitamente teorizzato. Le inquadrature ad altezza sedere del primo capitolo abbondano anche nel secondo e la stampa si è scatenata in poco sottili giochi di parole: derrière/dernière (posteriore/ultimo) e bottom (fondoschiena ma anche “fondo”, per “toccare il fondo”: “Director Abdellatif Kechiche hits bottom” titola Indiewire). Accoglienza negativa da gran parte della critica, e sorprendenti voltafaccia di chi non aveva amato Capitolo uno (in Italia Mereghetti sul Corriere, ad esempio).
Il film spiazza, non solo per la sua durata e per la lunghezza strabordante della scena in discoteca, ma anche perché manca una sostanziale evoluzione dei personaggi, impegnati in una ronde seduttiva che ne sospende le sorti (siamo alle prese con un dichiarato “intermezzo” nel racconto, d’altra parte). In primis quelle di Amin, osservatore marginale, quasi esautorato del proprio ruolo di alter ego del regista. Proprio il suo defilarsi dalla scena può offrire una chiave di lettura del film, al centro del quale c’è ora la seducente Ophélie, protagonista assoluta e fulcro del desiderio nonostante le divagazioni della macchina da presa al seguito delle altre, splendide ragazze, compresa la new entry Marie (Marie Bernard), abbordata in spiaggia dal donnaiolo cugino di Amin, Tony, stavolta accompagnato da Kamel, deciso ad affondare il colpo in discoteca. Ma la diciottenne biondina starà al gioco solo fino a un certo punto, e sarà invece proprio Ophélie a concedersi – termine poco esatto di fronte a una scena di sesso esplicita e prolungata, tutta votata al piacere femminile (e, al proposito, vale la pena domandarsi se l’imputazione di “male gaze” valga meno quando si filma un uomo dedito al godimento di una donna…).
L’assenza di titoli di coda conferma lo statuto di provvisorietà dell’opera, film fiume che, nella scelta di puntare alla ripetitività delle situazioni, non si limita a portare avanti in maniera banale il discorso cominciato con Canto uno ma ne propone una nuova versione, stavolta mediata dalla presenza di Ophélie: la spiaggia, la discoteca, il sesso sono gli stessi elementi del film precedente, composti in una nuova disposizione, la cui gestione è affidata alla giovane dal sorriso aperto e dal corpo florido: respinge Tony una volta per tutte – colpevole di non aver mai voluto portare la loro relazione oltre i confini della liaison segreta – e esige l’orgasmo dopo aver annunciato ad Amin di essere incinta e di voler abortire a breve.
In fin dei conti, Canto uno è un film più compiuto, stupefacente e sensuale racconto incentrato su uno sguardo desiderante colto nell’atto della propria maturazione, mentre Intermezzo può sembrare la sbrodolata autocompiaciuta di un cineasta smisurato, ai limiti del comprensibile per chi non abbia visto il capitolo precedente. Ma qui Kechiche ha momentaneamente lasciato in sospeso il proprio racconto autobiografico, quello di un uomo che ama le donne e ama filmarle, per amore di una di esse.