For those who’ve abandoned hope, we’ll restore hope and we’ll welcome them into a great national crusade to make America great again.
Ronald Reagan
1986, Stati Uniti: un’iniziativa popolare benefica dal titolo Hands Across America coinvolge circa 6,5 milioni di persone, che per quindici minuti, mano nella mano, formano una catena umana lungo un percorso attraverso tutta la Nazione. Molti partecipanti donano dieci dollari per prenotare il loro posto in fila; il ricavato viene devoluto agli enti di beneficenza locali per combattere lo stato di assoluta indigenza in cui versano ampie fasce della popolazione statunitense. Per consentire la massima partecipazione, il percorso collega le città principali e si snoda all’interno di molte città. La raccolta di donazioni arriva a 34 milioni di dollari, ma il ricavato finale, detratti tutti i costi, raggiunge solo i 15 milioni. Hands Across America passa alla storia come una delle manifestazioni benefiche più fallimentari nella storia degli Stati Uniti d’America.
Dalla pubblicità di questo evento reale osservata in tv prende spunto il secondo lungometraggio di Jordan Peele, Us, che come il precedente Get Out si affida al genere horror per affrontare tematiche di carattere sociale e marcatamente politico. È proprio dall’America reaganiana che il film parte, creando un filo diretto tra quel passato, fatto di esplosioni di benessere a danno delle classi sociali meno abbienti, e questo presente, che si basa ancora sulla cristallizzazione di quello stile di vita, testardamente consumista e inconsapevole della propria iniquità congenita. Facendo sua la lezione del cinema di John Carpenter (il legame con un film come Essi Vivono è evidente) Peele non si preoccupa minimamente di creare gradi di separazione tra il sottotesto e la trama, ma sembra anzi sviluppare quest’ultima solo come appoggio al discorso che la sottende.
La storia si delinea come un classico horror home invasion, in cui una famiglia borghese afroamericana viene aggredita all’interno della propria abitazione estiva da un gruppo di quattro persone identiche a loro. Tra flashback che mostrano il passato della protagonista e del suo alter ego (ma chi è l’alter ego di chi?), il film si concentra radicalmente sul tema del doppio, collettivizzandolo ed estendendolo a ogni cittadino americano, che a sua insaputa si muove costantemente seguito da una versione ferina e spietata di se stesso.
Attraverso l’ormai classica simbologia del Doppelgänger il film si apre a una serie di interpretazioni che guadagnano progressivamente il cuore tematico dell’opera. Queste versioni estese e involute degli essere umani, che abitano luoghi sotterranei lungo tutto il territorio degli USA, come a tracciare la mappa doppia di un luogo ambivalente, scimmiottano goffamente la vita vera, quasi che il vuoto a rendere che pervade le loro esistenze di serie b fosse la risultanza del disavanzo del benessere del mondo di sopra, che vive alle spalle del mondo di sotto, sostenuto dalla sua indigenza. Un’indigenza che per Peele è in grado tuttavia di farsi collettività, e di sconfiggere l’individualismo del mondo contemporaneo, accecato da un egoismo ormai talmente congenito da essere scambiato per normale, quotidiano, eticamente approvabile.
Se è vero che a far esplodere il cinema americano sin dalla sua nascita è stata la messa in scena di ambienti derivati, quasi mai originari, e la rappresentazione di un mondo dove a prevalere è l’immagine-azione fondata sul rapporto causa-effetto tra personaggio e ambiente, qui è l’ambiente originario a impossessarsi di quello derivato, attraverso un moto rivoluzionario che vede nell’annientamento del presente l’unica possibilità di futuro, migliore o peggiore che sia.
Questo schema poi trova una sua deviazione volontaria, quanto doppiamente sovversiva, nel finale, che attraverso un plot twist, anche questo narrativamente classico ma tematicamente inedito, ci mostra come la conquista del benessere da parte di chiunque, povero, ricco, colto o analfabeta che sia, non si poggi su un’inconsapevolezza effettiva, quanto piuttosto su una quasi malefica finzione di ignoranza etica. Questo conflitto nasconde a conti fatti un egoismo che si fonde ontologicamente con la sopravvivenza, non lasciando speranza oltre lo schermo di una realtà che non è rappresentabile secondo le intenzioni di un cineasta, ma solo mediante i flussi e riflussi della Storia, che non ha mai abbracciato l’equità tra i suoi tratti distintivi.
È all’interno di quel “Siamo americani” pronunciato dal presunto alter ego della protagonista che l’essenza di Us prende quindi vita, rivelandosi come manifesto sfacciato di una possibile nuova era politica del cinema americano, che prende atto di una società che sempre più spesso oscilla tra pretese di giustizia e baratri di autoconservazione, contro tutto e tutti, compresa se stessa.