Libera vita, libero film. L’ultimo lungometraggio di Tonino De Bernardi, presentato nella sezione Irregular Lovers al Lovers Film Festival di Torino, viene introdotto non a caso da una testimonianza filmata di Jonas Mekas, amico e ispiratore della ricerca del cineasta underground piemontese, forgiando così non solo un imprinting sull’ora e mezza che seguirà, ma a ritroso su tutta la sua produzione, da sempre nutrita dal New American Cinema d’oltre oceano.
Come spesso accade nel cinema di De Bernardi le regole di messa in scena vengono completamente ignorate, non tanto seguendo un proposito sovversivo, quanto piuttosto andando a delineare un’idea di flusso di coscienza filmico, inevitabilmente e totalmente anarchico. Anche in questo documentario, ambientato tra Torino e Parigi nel 2016, le linee narrative non si preoccupano di seguire una vera coerenza drammaturgica, quanto piuttosto un sentiero tematico che si sprigiona dal titolo stesso. De Bernardi parte dalle due città principali della sua esistenza e ne filma le collettività, tracciando un’idea di vita intesa come entità che si accoppia inevitabilmente con l’interazione tra varie realtà, e che porta quindi verso un inevitabile cambiamento.
Il conflitto, mai narrativo ma sempre sottotestuale, sta proprio tra il film e il mondo fuori o prima di esso: mentre il regista filma esclusivamente situazioni di integrazione armoniosa in entrambi i luoghi, la differenzazione si imprime su situazioni passate, come i trascorsi turbolenti di un ex travestito brasiliano, che oggi è riuscito a trovare un maggiore equilibrio con se stesso, oppure gli attentati a Parigi, oppure con il contesto di scetticismo e odio che si sta diffondendo nell’Italia e nell’Europa di oggi, relegato extradiegeticamente in altri luoghi, in quanto non interessante o costruttivo per il regista.
Assolutamente esemplificativo di un simile modus operandi è una scena verso la fine del film in cui il telefono del regista suona durante un’intervista, e il regista risponde, ma la chiamata viene interrotta quasi subito, suggerendo da un lato l’intrusione di questo mondo, oscuro o meno, e dall’altro l’idea di un cinema del reale che non nega nessun confine tra la vita e la sua rappresentazione, sposando il concetto di un home movie continuo, che deflagra in ogni genere cinematografico che De Bernardi si è preposto di affrontare. Attraverso questo esercizio, apparentemente un po’ naïf, il documentario non diventa più un genere cinematografico, ma riesce quasi a fondersi con la sua matrice reale, ed è allora che probabilmente la massima capacità del cinema underground italiano si scopre: l’abilità sincera di non curarsi di cosa sia amatoriale e cosa no, quanto piuttosto il fine ultimo di abbattere ogni sovrastruttura.
Da questo punto di vista Libera Vita sembra quasi un compendio, pur nel suo non seguire alcuna regola preimposta, manifestando in ultimo un legame quasi indissolubile tra vivere nel mondo ed essere un animale politico. Le vicende dei migranti filmate sono per il regista La Vita di oggi, quando si fa cinema si specchia l’esistente, l’esistente è la collettività, la collettività è la politica, e la polis oggi è cambiamento culturale, necessità di integrazione, e il suo conseguente risultato non può essere altro che armonia ed equilibrio, di cui questo film è pregno.
A coloro che sostengono che per costruire un senso interessante all’interno di un’opera cinematografica sia necessario il conflitto tra personaggi, la risposta migliore potrebbe forse essere il consiglio di visione della filmografia di Tonino De Bernardi, che insieme a quella di poche altre nel panorama indipendente italiana riesce a regalare una lezione preziosa su quanto fare cinema debba essere prima di tutto spunto per promuovere un’idea diversa di mondo.