Il primo lungometraggio dell’artista e filmmaker Micol Roubini è un’opera di prosa impura, nella quale la sostanza filmica è avvolta da un raffinato commentario: la voice over narrante della stessa regista assume le forme di ricamo letterario sul tessuto del film. Incipit letterario e incipit filmico, sovrapponendosi, offrono un nodo misterioso da sciogliere, ovvero il disvelamento delle sorti di una casa appartenuta al nonno di Micol, nato a Jamna nel 1923. La vita a Jamna, nonostante venga restituita per frammenti onirici, è reale: siamo in Ucraina, al confine con la Polonia, il villaggio esiste ed è esistito. Il ritratto di Jamna comprende volti e corpi umani claustrali, che, secondo quanto raccontato in un colloquio da Roubini, è stato possibile catturare per lo più, in forma collettiva, solamente nel cimitero, il campo deputato alla memoria silenziosa della comunità. Tutt’intorno, l’oscurità dell’oblio lascia sfuggire rare e fallaci testimonianze individuali, che si fanno strada con una forza acusmatica tangente a quella dell’autrice. I frammenti testimoniali si incagliano in tre nodi drammatici densissimi, riguardanti storie umane di fame, persecuzione, rastrellamenti e resistenza, tutte custodite dagli infiniti sentieri circostanti Jamna, dalla strada per le montagne, impossibile da perlustare e ripercorrere interamente a ritroso.
I monologhi interiori del “racconto” di Roubini sono affidati alla ricercatissima scala cromatica presente in ogni fotogramma. Le composizioni, le insenature dei volti e il verde cupo della natura circostante seguono due fuochi cromatici opposti: da una parte il freddo grigio che oscilla fra l’oscurità e la luce più bianca, dall’altra la densità delle circoscritte macchie intere e accese dei colori caldi. L’innesto che ne scaturisce sembra alludere alla cromia delle pellicole di film dominati da curatissimi paesaggi soggettivati. Si pensi, ad esempio, alle impressioni pitturali di Pialat, nella rappresentazione della campagna malinconica de L’enfance nue (1968), o ancora alle tinte urbane e interne di D’Est (1993), il silente viaggio-carrellata intrapreso da Chantal Akerman; e a D’Est potrebbero appartenere anche la solenne lentezza delle scene sia domestiche sia collettive, e soprattutto il divertissement del ballo, che sembrerebbe un vero e proprio omaggio al film della regista belga.
L’Est di Roubini, essendo privo di affollamenti di volti e voci testimoniali, non può far a meno di sonorità rarefatte e della voce narrante. La carenza di una ricca fonte di memorie ha spinto Roubini e la sua troupe (solamente altre due persone) a tradurre il vuoto testimoniale, in quanto informazione urgente della realtà, e a forgiarlo in una distanza, al contempo spaziale e narrativa. Il racconto di Jamna presuppone un vuoto (l’oblio), ovvero una disgiunzione spaziale da creare fra l’obiettivo e il dato reale, come lo stacco obbligatorio da mantenere tra la strada e il cancello dell’ex sanatorio, luogo occupato da guardie private nel quale dovrebbe ancora trovarsi la casa ricercata dalla voce narrante. Tra le immagini evocate dalle voci e la “fissità magica” dei fotogrammi esiste una sfasatura, all’interno della quale lo spettatore è libero di immaginare i luoghi e le continuazioni dei racconti inghiottiti dal passato. La voice over, stimolando l’immaginazione di chi guarda, si inserisce in una dinamica con lo spettatore assimilabile a quella innescata più dalla lettura (il rapporto tra lettore e segno grafico) che dalla visione.
È stata la stessa Roubini a confermare la densità letteraria del documentario: tutto modellato su una sceneggiatura di lunghissima gestazione e attorno alla risoluzione del mistero dell’esistenza della casa di famiglia [1]. In La strada per le montagne noir e melodramma si mescolano e, nell’ibridazione, non solo non accompagnano alla chiarificazione del mistero, ma si espandono in un punto d’arrivo che vive dell’incertezza sfocata tipica dei ricordi onirici. Potremmo considerare l’opera una lunga sequenza sognata, della quale l’epilogo rappresenta il risveglio, un’incisiva deflagrazione dei dati raccolti, l’ulteriore intorpidimento delle acque. Qual è la realtà, la verità ricercata da Roubini? La risposta potrebbe risiedere nell’interiorità e nel vissuto traumatico ereditato da chi filma, nel finissimo filtro soggettivo che ricopre come una patina il turpe dato reale o, parallelamente, in una forma estetica torbida, indicativa di una difficoltà di lettura sia del passato (del quale si tende a tacere) sia del presente ucraino, che, anche alla luce degli ultimi risultati elettorali, appare sempre più paradossale e impenetrabile.
[1] Dichiarazioni rilasciate da Micol Roubini nel corso di un colloquio tenutosi durante la 41ª edizione di Cinéma du Réel, Parigi, 15-24 marzo 2019.