Tra le figure di primo piano nel panorama festivaliero internazionale c’è anche Giona A. Nazzaro, attualmente delegato generale della Settimana della Critica di Venezia e selezionatore per Visions du Réel di Nyon. Non dirige un festival di primo piano ma meriterebbe di farlo: lo sguardo a 360° sul cinema in grado di unire in un unico abbraccio autori e generi, la capacità di tenere congiunta la riflessione teorica e il pensiero critico senza mai sacrificare il cuore della passione, l’accurata conoscenza delle modalità di produzione e diffusione delle opere, il lungo apprendistato al fianco di coloro che hanno riformulato la concezione del festival cinematografico moderno, da Luciano Barisone a Marco Müller. Tutto questo pone Nazzaro al centro di un panorama in cui i selezionatori, nella loro posizione privilegiata, si fanno ricettori magnetici per opere coraggiose e innovative che altrimenti non giungerebbero al nostro sguardo. Come nel caso eclatante di Les Garçons sauvages di Bertand Mandico, lanciato proprio da lui nella alla SIC e già capolavoro riconosciuto di questi anni.


Perché hai cominciato a occuparti di cinema e in che modo?

Guardandomi intorno e leggendo di cinema mi sembrava che ci fosse un vuoto, ovvero che le persone come me non fossero rappresentate in ambito critico. Sono stato appassionato di cinema da sempre e la prima cosa che ho fatto è stata occuparmi del cineforum di Mondragone, dove sono cresciuto. Avevo l’impressione che i film che ci piacevano non venissero adeguatamente valorizzati…

A quali film ti riferisci?

Si tratta di opere a cui sono rimasto molto affezionato, come L’alieno di Jack Sholder (1987), un piccolo film che non riceveva la giusta attenzione, mentre film più importanti, come La leggenda della fortezza di Suram (Paradjanov, 1986) venivano messi sotto una sorta di cappa di vetro accademica che impediva di far respirare opere più “anarchiche”. Proprio per questo, nel nostro cineforum, ci divertivamo ad accostare Jack Sholder e Paradjanov, o Cronenberg e Werner Schroeter, per la disperazione di tutti, che perdevano l’orientamento, perché volevano più film come Mephisto di Svzabo…

Eri un lettore di critica cinematografica, all’epoca?

Sì, principalmente di Filmcritica e Segnocinema, ma prendevo anche Cult Movie, che ha avuto vita breve. Poi andavamo a cercare Cinema e Film al Mercato di Port’Alba. Non leggevamo Cinema Nuovo, invece…

Parli al plurale: eravate un gruppo?

In realtà no. Ma si sognava sempre il gruppo, la carboneria. Il cinema per me è sempre stato il modo per individuare una comunità, una comunità di affetti, soprattutto. E non era tanto la faccenda della sala in sé, quanto quella di condividere con gli altri una passione.

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Come hai cominciato a scrivere e a fare critica cinematografico?

Per lungo tempo la critica ha avuto un aspetto dopo-lavoristico: scrivevo tanto, di cose che mi piacevano, ma senza relazionarmi al contesto più ampio di chi si occupava di cinema, avendo un altro lavoro. Il mio periodo formativo è stato sulle pagine di Cineforum, grazie al grandissimo Sandro Zambetti, oggi poco celebrato: per me è stato un faro, ero ammirato dall’idea etica di un uomo impossibile e generosissimo. Se a lui il pezzo che avevi scritto non piaceva ti chiamava e stava al telefono a riscrivere il pezzo insieme a te, soprattutto se pensava che fossi all’altezza. Potrei andare avanti ore a parlarne, anche se non ho avuto con lui un rapporto particolarmente privilegiato, ma le cose che ho scritto per Cineforum agli inizi erano orrende e mi diceva come strutturare i pezzi, mi indirizzava in maniera forte.

Avevi una visione eclettica del cinema, già al tempo, in grado di amare gli autori e i generi?

Vivendo in provincia divoravo tutto e non perché pensavo che certi film un giorno avrebbero avuto una rivalutazione grazie a certe riviste ed edizioni limitate in blu-ray… E se in una sala c’era Roma a mano armata, lo si vedeva e dopo si andava a vedere Herbert Ross, perché in paese non c’era altro da fare. In ogni caso se dieci milioni di persone vedono un film e in dieci dicono che è brutto, anche se intellettualmente “contano” di più, forse quei dieci milioni di persone hanno visto qualcosa nel film che gli altri dieci non vedono. Un tempo i critici vedevano molti più film dei selezionatori, oggi la situazione si è invertita ed è per questo che ritengo che il mestiere di selezionatore sia quello più importante dal punto di vista critico, nel veicolare determinate opere a un pubblico.

Come hai cominciato a lavorare nei festival?

Frequentando il Festival di Torino sono entrato in contatto con Roberto Turigliatto, Gianni Rondolino, Giulia D’Agnolo Vallan, Alberto Barbera, che all’epoca aveva organizzato un omaggio a Kirk Wong. Poi un giorno Roberto mi ha chiesto di cominciare a visionare film per il festival. Si tratta di un periodo che ricordo molto volentieri, perché andare al festival di Torino era come andare a scuola, ma una scuola bella! Facevi queste full immersion di visioni, incontravi autori nuovi, italiani e non, e si tornava a casa carichi, pieni di stimoli. E Gianni Rondolino, nonostante fosse un professore, aveva un’apertura totale nei confronti del cinema e delle nostre proposte.

Dopo Torino come procede il tuo percorso?

C’è l’incontro con Luciano Barisone, che arriva al Festival dei Popoli dopo l’esperienza di Alba. Quello con Luciano è stato un altro incontro cruciale, perché grazie a lui ho intrapreso un percorso che mi ha permesso di de-cinefilizzarmi. Con tutto il rispetto per la cinefilia, sono passato da un cinema caratterizzato da codici molto forti a un altro totalmente aperto. Ci siamo incontrati a Locarno prima di Sotto gli ulivi di Kiarostami, e alla fine del film ci siamo guardati come per dire “che meraviglia”, e da quel giorno la nostra conversazione non si è mai interrotta.

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Il documentario l’hai scoperto grazie a lui?

Possiamo dire di sì, perché il documentario per me come per tanti altri cinefili di base aveva un ché di punitivo, ma naturalmente si tratta di un peccato di ignoranza, e Kiarostami è stato fondamentale, in questo senso… Certo, se fossimo stati davvero bravi, l’avremmo capito subito con Herzog, e se fossimo stati ancora più bravi l’avremmo capito con Godard. Ma non lo siamo stati.

Quanto è importante oggi guardare cinema documentario?

Bisognerebbe fare pace con l’idea che il cinema nasce documentario e sarà sempre documentario, e che semmai la finzione è un sottogenere del documentario, perché è il “mondo risistemato”. Io non riesco più a guardare un film senza pensare al mondo che gira intorno alle inquadrature, quindi non concepisco la distinzione. E più il mondo che gira intorno alle inquadrature mi sembra interessante più lo diventa quel piccolo rettangolo di immagine; quando i film non hanno “brusio” intorno all’inquadratura mi sembrano poco vitali.

Cosa cerchi nei film, in particolare documentari?

Lo stupore. Ma cerco anche una relazione, uno sguardo, una possibilità, una sfida. Il mondo, la macchina, lo sguardo e la possibilità di reinventare continuamente il rapporto che lega questi tre elementi. Poi, ti dirò: so cosa cerco quando il film mi si rivela. Quando ho incontrato il cinema di Thomas Heise ho capito cosa stavo cercando. Ora mi sembra impossibile pensare il cinema senza di lui.

C’è stato anche il periodo di lavoro al fianco di Marco Müller a Roma. Quali sono stati i suoi insegnamenti più importanti?

Credo che Marco Müller sia la persona che, attraverso il proprio lavoro prima a Locarno e poi a Venezia, ha letteralmente teorizzato la forma contemporanea di festival cinematografico. Aveva capito che le cose stavano cambiando e che i festival, come luoghi di incontro, stavano diventando qualcos’altro. È stato uno dei primi a intuire come la presenza delle compagnie di vendita avrebbe modificato in maniera permanente il rapporto tra festival e autori, anche se è sempre stata una persona in grado di intrattenere un rapporto strettissimo con gli autori. In ogni caso è a lui che dobbiamo l’idea del festival come evento e al tempo stesso luogo di ricerca e studio, laboratorio, e anche la grande intuizione riguardo la trasformazione del pubblico che da pubblico diventava “pubblici”. Se si osserva ciò che ha fatto a Locarno e a Venezia, il suo lavoro costituisce le regole di ingaggio condivise dei festival contemporanei e credo che saranno ancora valide per altri quindici anni.

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Da diversi anni hai raggiunto una posizione importante come delegato generale della Settimana della Critica del Festival di Venezia. È una sezione in cui ti stai ritagliando uno spazio di selezione importante con riconoscimenti e scoperte, come la rivelazione di Betrand Mandico. Che tipo di opere ricerchi?

Quando ho ricevuto l’incarico mi sono subito reso conto che avrei dovuto cambiare passo rispetto a quello che facevo. Vale a dire che il criterio di valutazione critico, o cinefilo, è totalmente insufficiente, mentre la responsabilità di prendere o meno un film è assai delicata. Intanto, lavoro in un contesto prestigioso che ha lanciato cineasti importanti, da Pedro Costa e Olivier Assayas fino a Brian Synger, quindi non è che uno entra in casa altrui e si mette a cambiare la disposizione dei mobili, per così dire. L’unica cosa che mi sono permesso di fare è stata ipotizzare come mettere la SIC in relazione con tutte quelle energie di cui abbiamo appena parlato: può la SIC essere un elemento di dialogo aggiuntivo all’interno di quella comunità all’interno della quale mi muovo da tempo? L’idea quindi che la nostra programmazione finisse nel radar di tante persone e colleghi che stimo, per contribuire al lavoro di diffusione di opere e cineasti che ci interessano. In ogni caso non ho linee precise che mi guidano nel lavoro di programmazione. Sicuramente preferisco sbagliare per generosità o per entusiasmo, piuttosto che per aridità emotiva e critica.