Da un anno alla guida della Viennale, dopo l’improvvisa scomparsa di uno dei più carismatici direttori di festival, Hans Hurch, l’italiana Eva Sangiorgi presenta un’edizione che sa ben coniugare lo spirito di ricerca della manifestazione con le tracce di un’apertura eclettica alle diverse sfaccettature dell’arte cinematografica. Dall’indagine accurata affidata alla retrospettiva dedicata ai Low Budget Movies curata da Haden Guest agli omaggi dedicati a giovani autori radicali nella loro pratica cinematografica (da Gürcan Keltek a Roberto Minervini), la costellazione cinematografica dipinta dalla Viennale porta l’impronta della direttrice – di cui si era già apprezzato il lavoro al Ficuunam a Città del Messico – che nonostante abbia maturato il suo percorso lontano dall’Italia, ha scelto di aprire la manifestazione con Lazzaro felice, terza opera di Alice Rohrwacher.

Quando è avvenuta la tua nomina alla Viennale è stata quasi una sorpresa nell’ambiente italiano: il tuo percorso è più noto a livello internazionale che nel tuo Paese. Ma tutto è iniziato in Italia o con il tuo trasferimento in Messico?

In effetti sono partita per il Messico ormai sedici anni fa, appena finiti i miei studi di Comunicazione a Bologna. Mentre frequentavo il quarto anno, è stata creata una borsa di studio per chi volesse approfondire la conoscenza di nuovi territori: ho vinto il posto per il Messico, che culturalmente non conoscevo per nulla. Ma quando arrivai mi trovai trasportata in una situazione stimolante: per la prima volta stavano creando un festival molto grande a Città del Messico. A lavorarci c’erano tutti ragazzi molto giovani, che ho conosciuto per caso e mi hanno chiesto di occuparmi dell’ufficio stampa internazionale. Ho iniziato per gioco, ma è stata un’esperienza fondamentale. Alla base del festival c’era una grande catena di cinema commerciali (che finanziava l’iniziativa), che ha garantito l’esistenza della manifestazione per alcuni anni: così per il primo periodo ho fatto avanti e indietro tra Città del Messico e Bologna, lì lavoravo come ufficio stampa sei mesi l’anno, mentre a Bologna mantenevo i miei studi universitari e ho iniziato a organizzare IberoAmericana, una rassegna di cinema sudamericano alla Cineteca di Bologna.

Quando è avvenuto il tuo spostamento definitivo in Messico?

Tutto è successo abbastanza velocemente, dopo le prime edizioni ho cambiato la mia posizione all’interno del Festival, passando dalla comunicazione alla programmazione, come coordinatrice e poi iniziando a programmare. Purtroppo, come spesso succede a Città del Messico in cui gli eventi culturali magicamente nascono e improvvisamente svaniscono, la manifestazione è durata soltanto sei anni perché non corrispondeva più agli interessi della società che la finanziava, il cui unico movente era un ritorno d’immagine. C’è stata una grande amarezza, ma da quest’esperienza ho capito che se si voleva costruire un Festival di cinema destinato a durare, e non soggetto agli umori passeggeri, era opportuno legarsi a una realtà solida, come poteva essere l’università, soggetta casomai a dei compromessi culturali e non commerciali. Mi sono rivolta all’UNAM – Università Nazionale Autonoma del Messico che è enorme, con 350.000 studenti: era stata il mio primo contatto con quel Paese ed è un posto magnifico, nel cui campus sono presenti diversi musei d’arte contemporanea, teatri d’opera e di danza, auditorium e cinema… Ho scritto una mail al responsabile culturale dell’Università (a capo della gestione di tutti i diversi spazi), dicendogli che avevo un’idea per un Festival di cinema e – colpo da realismo magico – mi ha risposto, chiedendomi maggiori dettagli e facendomi sviluppare un progetto sul cinema contemporaneo. In realtà la mia idea ha intercettato i loro interessi: l’università ha un archivio importante, la Filmoteca, in cui vengono restaurate e preservate numerose pellicole (mostrate a manifestazioni come il Cinema Ritrovato), ma non aveva nessuna manifestazione legata al cinema. Era un momento in cui volevano puntare su questo campo, rinnovando anche le sale cinematografiche e svecchiando la programmazione. Così è iniziato il FICUNAM, che ha coinvolto in parte le persone che lavoravano con me al festival precedente.

La particolarità del FICUNAM sta proprio nella filiazione all’Università: cosa ha voluto dire per te aver avuto la possibilità di non essere soggetta all’interlocuzione politica, a cui altre realtà simili in Europa sono sottoposte?

L’università di Città del Messico ha nel nome la sua autonomia: questo non vuol dire che non sia una realtà politica, al suo interno ci si muove come in una società medievale con i suoi feudi, che bisogna conoscere, ma è prima di tutto un luogo di ricerca scientifica e anche umanistica, il fine da perseguire è chiaro. Quindi creare un festival cinematografico che si svolgesse e fosse finanziato da loro significava garantire la qualità di un programma in linea con la ricerca dei linguaggi, non essere soggetti ai meccanismi stritolanti di una certa politica della cultura o dello spettacolo (tesi solo al nome di richiamo). Ovviamente negli anni si sono fatte delle riflessioni sulle presenze in sala, su cosa sia andato meglio o peggio, ma non ho mai avuto ingerenze dal punto di vista di quello che decidevo di mostrare. L’avanguardia era la linea artistica definita insieme a loro, quindi nessuno si lamentava di “visioni radicali”.

Fin dall’inizio è stato centrale il rapporto con l’arte contemporanea e con cineasti in dialogo con istituzioni artistiche?

Sì, fin dall’inizio. Il mio primo ospite fu Apichatpong Weerasethakul: l’ho invitato l’anno che vinse la Palma d’Oro, gli avevo chiesto di istallare uno dei suoi video nella galleria d’arte contemporanea dell’università, che è proprio di fronte alle sale cinematografiche in cui si svolge principalmente il FICUNAM. La multidisciplinarietà era connaturata in un progetto che doveva coinvolgere i vari centri artistici del campus e autori come Apichatpong sono quelli che mi interessava intercettare per mostrare lo spettro e la portata dei loro lavori.

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Gradualmente la concentrazione di eventi cinematografici europei (Cannes, Venezia, Berlino, Locarno, Vienna, etc.) è stata messa in crisi da un crescente potere che hanno acquistato i festival americani, ma anche dalla vitalità del Sud America. Cosa pensi di questa trasformazione?

Parlo per il Sud America, che è una realtà che conosco meglio: credo che negli ultimi anni sia nata una nuova e vivace generazione di autori di cinema locali e questo abbia dato l’impulso alla creazione di festival, e viceversa. Basti pensare a un festival come il Bafici a Buenos Aires, che è nato insieme al nuovo cinema argentino: quando una generazione di critici si accorge del fermento di nuovi autori, è facile che venga stimolata a organizzare un “luogo” per loro. Questo ha un effetto positivo (gli scambi e gli stimoli che portano i festival), ma anche negativo (c’è il rischio dell’omologazione dei film sviluppati).

Da quando lo hai fondato a oggi che lo hai lasciato, quali sono le strade che hai aperto con il FICUNAM di cui ti senti più orgogliosa?

Prima di tutto, il fatto che il Festival continuerà e anzi sarà sempre più solido. Ora ha un nuovo direttore, e – grazie al lavoro di questi anni – sempre più sponsor si legano alla manifestazione, che all’inizio era una scommessa e, soprattutto da chi poteva supportarla, veniva vista come un evento di nicchia. Poi sono soddisfatta del pubblico che si è creato, sempre più numeroso e più consapevole. E infine del posizionamento rispetto ad altri festival internazionali, che sempre più seguono la programmazione e guardano con interesse ai film o agli autori presentati. Infine c’è una soddisfazione a livello più personale: il FICUNAM è un festival per il pubblico (non c’è un mercato o delle giornate professionali), ci sono solo delle masterclass con gli autori e degli incontri con i critici. Questa attività ha portato alla nascita di una nuova generazione di critici, che sono i fan numero uno della manifestazione, che scrivono su pubblicazioni online e sono una ricchezza per l’evento: grazie ai loro articoli si è iniziato a riflettere sul cinema di autori di cui in pochi si occupavano in Messico.

Tra i rapporti con i festival internazionali, immagino ci sia stato quello con la Viennale e il suo direttore Hans Hurch.

Ci avevo tenuto a invitare Hans per la seconda edizione della manifestazione: è stato presidente della giuria, la sua visita ci ha dato grande impulso ed energia. Tanto che anche negli anni successivi è sempre rimasto qualcuno a cui chiedere consigli e stimoli.

La tua nomina alla Viennale, porta con sé il peso di essere chiamata a prendere il posto di una personalità che è stata centrale nel campo della cinefilia. Come ti stai relazionando con la sua eredità?

Certo, non è semplice pensare di arrivare a dirigere una manifestazione che è stata la sua casa per tanti anni. E mi sento gli occhi puntati addosso da chi non mi conosce, ma anche dagli amici – che erano anche i suoi – e vogliono capire cosa succederà alla Viennale. Devo dire che, nonostante sia arrivata a Vienna senza sapere il tedesco, il team estremamente professionale del festival mi ha accolto positivamente, dicendomi che stavo portando un’energia nuova, seppur rispettosa della tradizione e della linea. L’eredità porta ovviamente una tensione, ma speriamo generi frutti positivi!

La Viennale ha una doppia anima: da una parte è un festival di ricerca, ma è anche la manifestazione di una capitale europea, quindi legata più al pubblico che agli addetti ai lavori.

Sì, in questo è in linea con la mia esperienza al FICUNAM, ancora una volta è un festival ricercato dal punto di vista della programmazione ma che deve intercettare un pubblico. Quindi non sono soggetta a particolari richieste, ma la Viennale deve essere espressione del clima di festeggiamenti della città.

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Hai dato delle particolari svolte al programma?

Mi è sempre piaciuta l’idea che non ci fosse una competizione, quindi ho voluto mantenere questa linea; ho anche continuato la scelta della doppia retrospettiva, una internazionale e una legata al cinema austriaco, però ho scelto di riorganizzare il programma creando più focus e cancellando la distinzione tra cinema di finzione e cinema documentario: sono etichette a cui non credo. Ho in mente altri cambiamenti che saranno maggiormente evidenti dal secondo anno e vanno nella linea della multidisciplinareità. Ci ho tenuto a trasformare il catalogo, arricchendolo di testi critici originali, in modo che restasse un libro da collezione.

Hai portato un certo eclettismo nel programma scegliendo una retrospettiva speciale. Da cosa è nata l’idea?

Il curatore Haden Guest mi aveva parlato di questa idea: un viaggio attraverso i film low budget hollywoodiani, dalla metà degli anni Trenta fino agli anni Cinquanta, per riscattare questi film che venivano offerti in una doppia proiezione (modalità con cui abbiamo scelto di programmarli anche noi). Nella rosa dei titoli proporremo sia autori più noti come Ulmer o Lewis, altri da riscoprire come Ida Lupino, e poi alcune vere e proprie chicche invisibili. Quello che mi affascinava della retrospettiva era aprire la mia direzione anche con qualcosa di leggero, che portasse a un’idea di cinema artigianale e prolifico, che può far sorridere le persone.

Quando hai parlato della spinta che un nuovo cinema dà alle manifestazioni culturali, non ho potuto non pensare a un certo immobilismo che contraddistingue l’Italia, che ha portato in tanti operatori culturali a lavorare fuori. Cosa ne pensi?

Mi fa molto piacere che ci siano tanti giovani italiani ovunque! Dal mio percorso è chiara la mia distanza dal panorama italiano (in cui non ho mai lavorato), l’unico luogo con cui ho un legame affettivo forte è Bologna, in cui c’è la bellissima realtà del Cinema Ritrovato, che continuo a frequentare e mi sembra la più viva e florida sia sul territorio che dal punto di vita internazionale. Poi credo che le situazioni più dinamiche siano quelle marginali, di provincia, che spesso non assumono più la forma del festival.

E anche in Italia c’è un rispecchiamento tra nuovi autori e nuovi organizzatori culturali: anche i nostri registi sono spesso più riconosciuti all’estero che in Italia, basti pensare al caso del bellissimo film di Alice Rohrwacher, Lazzaro felice, che hai scelto per l’apertura della Viennale.

Sia dal punto di vista delle grandi manifestazioni che da quello del pubblico c’è veramente poco dinamismo in Italia (in generale, non solo in ambiti cinematografico), questo si riflette purtroppo nei scarsi risultati al botteghino di film che andrebbero sostenuti di più e sarebbero certamente in grado di rivolgersi a un vasta tipologia di persone.