Carlo Chatrian a capo della Berlinale, Eva Sangiorgi alla Viennale, Paolo Moretti, primo non francese ad essere stato nominato direttore artistico della Quinzaine des Réalisateurs del Festival di Cannes. Poi Francesco Giai Via ad Annecy, Nico Marzano all’ICA di Londra, Rebecca De Pas all’Istituto Documentario di Praga, Giona A. Nazzaro, Paolo Bertolin… l’elenco potrebbe continuare a lungo. Oggi i selezionatori italiani, ai vertici dei più importanti festival cinematografici internazionali, rappresentano un’eccellenza culturale, eppure in patria trovano poco spazio, e nell’imminenza del rinnovamento di manifestazioni storiche come Venezia e Torino, sarebbe bello pensare che qualcosa possa finalmente cambiare.
Abbiamo intervistato alcune delle figure più rilevanti di questo panorama, a cominciare da Carlo Chatrian che, dopo un lungo apprendistato critico e cinefilo, è cresciuto come selezionatore e organizzatore al fianco di Luciano Barisone al Festival di Alba, per poi intraprendere un percorso professionale di primissimo piano all’interno del Festival di Locarno, di cui è stato direttore per 6 anni, e ora, fresco di nomina, a Berlino, dove lo aspetta l’impegnativa sfida di un festival impressionante per portata e pubblico, da tempo scarsamente competitivo se non nelle sue sezioni collaterali.
Quando hai cominciato a lavorare al Festival di Locarno e in che ruolo?
C’è stato un passaggio abbastanza dolce tra il mio ruolo di frequentatore del festival come giornalista e il momento in cui sono stato ingaggiato per moderare dibattiti e conferenze stampa. Era il 2003, se ricordo bene. Ho svolto questo lavoro di “accompagnamento e introduzione dei film” fino al 2007, quando sono entrato nell’equipe di programmazione, sotto la direzione di Frédéric Maire. Ho lavorato come selezionatore per tutto il suo mandato, seguendo in prima persona anche la grande retrospettiva dedicata all’animazione giapponese e poi quella sul cinema di Nanni Moretti. Con l’arrivo del direttore successivo, Olivier Père, il comitato di selezione è cambiato completamente e io mi sono occupato esclusivamente della retrospettiva – il cui concetto è cambiato, perché nei tre anni di Père le retrospettive sono state tutte dedicate al cinema classico. La mia nomina a direttore è avvenuta nel 2013.
In questo percorso c’è anche una naturale confluenza del tuo lavoro critico, che oggi sempre di più prende forma nella pratica della programmazione…
Io non ho mai fatto il giornalista in senso stretto. Vivendo ad Aosta, e avendo avuto anche da giovane fonti di reddito diverse da quelle legate all’attività critica, ho avuto il “lusso” di scrivere sempre e solo di film che mi interessavano, e l’attività che trovavo più stimolante era quella dell’intervista come strumento critico. Fin da subito, accanto all’attività critica si è affiancata quella di programmazione nei festival. Ho cominciato a scrivere intorno al 1995, o forse prima, negli anni dell’Università a Torino, e già allora mi dedicavo a organizzare cineforum: quando un film mi piaceva, o intercettavo il lavoro di un regista che mi sembrava importante, facevo in modo di far incontrare lui o il suo cinema con il pubblico. È quello che abbiamo fatto a Milano con Filmmaker nel 97’ e ’98, con le retrospettive dedicate a Van Der Keuken – all’epoca lavoravo a un festival di Aosta, Documentary Europe, e avevo visto Amsterdam Global Village, un film sconvolgente, che in Italia nessuno conosceva –; l’anno dopo abbiamo organizzato le retrospettive dedicate a Errol Morris e Frederick Wiseman. Questo per dire che fin da subito, nel mio caso, le due attività sono andate di pari passo.
Oggi più che mai è importante il ruolo svolto dai festival nel presentare determinati autori o un certo cinema, nel momento in cui la distribuzione è un imbuto che rilascia una porzione molto ridotta della produzione.
Senz’altro. Penso anche ai tanti festival più piccoli, o ai tanti luoghi in cui la sala cinematografica si fa proposta curatoriale e non soltanto divulgativa. Certo, i festival stanno diventando – anzi, sono già – un luogo in cui fare critica. Nel momento in cui il concetto di critica che negli anni ’80 e ’90 viveva attraverso le riviste oggi si è espanso nella rete – penso a realtà come MUBI, in cui la critica si affianca a una piattaforma di streaming online – i festival, in qualche modo, fanno quel tipo di lavoro: alcuni festival, piccoli ma molto ben definiti dal punto di vista curatoriale, sono di fatto piccole riviste di cinema. Locarno è un caso a parte: trattandosi di una manifestazione che presenta film inediti ha un ruolo diverso e le nostre preoccupazioni sono state sempre anche di altro tipo. Fermo restando il lavoro di selezione, bisogna capire quali film posso essere aiutati a esistere da un festival come quello: si tratta quindi di unire al significato dei film anche le riflessioni legate al loro potenziale di mercato, per far incontrare alle opere un pubblico che vada oltre quello del festival stesso.
Nel 2013, quando sei diventato direttore del festival hai scelto di lavorare in continuità con la direzione precedente o avevi in mente di operare cambiamenti radicali?
Va detto che quando mi è stata offerta la possibilità di dirigere il festival per me è stata una grande sorpresa, non avevo mai diretto neanche un festival piccolo! Ad Alba, con Luciano Barisone, avevo lavorato in tutti i ruoli, ma non ero il direttore… D’altra parte conoscevo molto bene il festival di Locarno, in tutta la sua evoluzione. Ho una personalità molto diversa da Olivier Père ma i nostri profili non sono molto differenti, e forse anche per questo la struttura che aveva dato al festival mi è sembrata quella giusta. Condividevo le sue scelte sul fronte della struttura: aver ridotto il numero dei film, aver potenziato il concorso sul fronte di una proposta cinematografica che si spingeva verso il “cinema di confine” nel momento in cui Cannes e Venezia facevano scelte differenti, modificando la loro linea. L’idea era dunque di lavorare in continuità, anche perché storicamente i direttori di Locarno sono rimasti in carica per molto tempo: David Streiff, Moritz De Hadeln, Marco Müller… Poi in dieci anni ne ha cambiati tre! Il direttore non si limita solo a scegliere i film ma deve pensare a delle linee di fondo, e farlo in due, tre anni non è semplice…
Negli anni della tua direzione come hai agito sulla struttura del festival?
Abbiamo lavorato soprattutto in settori legati alla formazione, come la Summer Academy. Si tratta di attività che facevano parte del festival già negli anni ’90 ma quando sono arrivato io erano attività sparse, organizzate in collaborazione con altre entità, come l’USI, e non c’era una visione complessiva. C’è ad esempio la Giuria giovani, organizzata dal cantone insieme a Castellinaria; ci sono la Documentary School, organizzata con l’USI, e la Filmmakers Academy, poi Olivier ha organizzato la Critics Academy, in collaborazione con IndieWire. A partire proprio dalla Critics Academy, che aveva ormai un riconoscimento al livello internazionale, abbiamo deciso di ripensare anche la Filmmakers Academy con un bravissimo project manager, Stefano Knuchel, e sulla base di un concetto ben preciso, diverso dal Talent Campus di Berlino: avere poche persone ma molto selezionate, con un programma elaborato ad hoc per ciascuno; ogni partecipante arriva con un proprio progetto ma non ci lavora, lo mette da parte e per una settimana, dieci giorni compie un percorso. Nel mio primo anno da direttore, ad esempio, uno degli ospiti più importanti del festival, Werner Herzog, ha fatto su mia richiesta un incontro esclusivo con i partecipanti dell’Academy, insieme al suo direttore della fotografia. L’anno dopo Abel Ferrara è venuto per incontrare gli studenti; poi Lav Diaz e Pedro Costa. Insomma, “sfruttiamo” la presenza di alcuni registi e la trasformiamo in un’opportunità per i partecipanti dell’Academy. Selezioniamo dieci registi da tutto il mondo, più 5 provenienti dalla Cinefondation di Cannes. In ultimo si è aggiunta la Industry Academy, pensata da Nadia Dresti, per persone che lavorano in ambito distributivo o facenti parte di compagnie di vendita e sono agli inizi di questa attività: li mettiamo in contatto con professionisti più esperti, insieme ai quali affrontare i problemi legati alla loro attività. Questo perché oggi è fondamentale chiedersi, una volta che il film è realizzato, chi lo vede oltre il festival. Come può un film indipendente resistere all’urto delle proiezioni delle piattaforme online? Come si comunica la sua esistenza?
Il festival ha un apparato “industry”, al di là dell’Academy?
Senza che Locarno sia un vero e proprio mercato, abbiamo lavorato molto su un settore che si chiama Locarno Pro. Si dà la possibilità a distributori internazionali, venditori e esercenti di vedere nell’arco di tre giorni tutti i film del festival: sono gli Industry Screenings che facciamo al Rialto. Poi vengono organizzate attività di incontro molto libere e aperte, degli “happy hour”, insieme ad altri progetti come First Look, dedicato ogni anno a un Paese diverso, in cui si mostrano film in post produzione a programmer e venditori internazionali. Negli anni molti film passati da qui hanno compiuto un bel percorso, anche perché c’è una giuria importante composta da vari direttori di festival. Poi ci sono Step-in e Step-in Svizzera, legati all’aspetto distributivo e dedicati a esercenti e distributori; e da due anni c’è un’attività chiamata Lines for Development, sugli accordi di coproduzione per mercati di prossimità svizzera, Francia, Germania e Italia, per progetti in cerca di un coproduttore svizzero.
Tornando alla selezione, negli ultimi anni qualche modifica è stata fatta al programma. Penso a Signs of Life, una sezione che prima non esisteva…
Come dicevo, la struttura di fondo non è cambiata. Ma per Signs of Life la riflessione che abbiamo fatto è questa: nel momento in cui Piazza Grande è diventata una grossa vetrina per film in uscita, e quindi meno interessanti per il lavoro dei programmer e per i cinefili che arrivano al festival, perché si tratta di opere che si vedranno facilmente in sala, abbiamo deciso di creare una programmazione alternativa e contemporanea per orario a quella di Piazza Grande ma indirizzata a un pubblico completamente diverso. Tenuto conto che Cineasti del presente, la sezione storicamente più portata all’ibridazione, con Olivier Père si è dedicata alle opere prime e seconde, operando non più secondo un taglio stilistico ma nell’impegno a scoprire nuove voci, abbiamo pensato di dare spazio, in una sala di dimensioni un po’ più ridotte rispetto al FEVI, a opere che sperimentino forme narrative e senza distinzioni di durata. Si tratta di una sezione che, effettivamente, è cresciuta molto in fretta, sia in termini di programmazione che di ritorno di pubblico. La sezione che invece si è strutturata di più, e che per me costituisce la vera e propria spina dorsale del festival, è la parte legata ai programmi retrospettivi che va sotto il titolo di Histoire(s) du Cinéma: la vedo come un sistema nevralgico in grado di comporre una mappa di autori e opere del passato, più o meno prossimo, capaci di dialogare con i film del presente. È un contenitore molto ampio che può unire un premio alla carriera a un attore o a un regista, un omaggio a un autore scomparso, il Vision Award – un’altra delle nostre novità – che prevede di vedere film iconici da una nuova angolatura, che non è quella del regista o dell’attore. La sezione, poi, entra in relazione anche con la grande retrospettiva del festival: quest’anno abbiamo presentato Leo McCarey, la cui opera spazia dalle comiche brevi degli anni ’20 ai melodrammi degli anni ’60, e quindi con tutti gli altri omaggi si è andato a parare verso un modello di genere, o sul cinema indipendente, ibrido. L’anno scorso avevamo la retrospettiva Tourneur che forniva un’impronta già molto forte in tal senso e di conseguenza gli omaggi sono andati in un’altra direzione. Si tratta di creare una vera e propria narrazione attraverso le opere presentate.
I festival di fascia alta devono rispondere a necessità di vario tipo: a Locarno c’è la fortuna di poter contare sulla Piazza per tutta una serie di opere che sarebbero fuori luogo all’interno del concorso. Mi chiedo se sia più difficile trovare i film per la piazza o per il concorso, che vanno contesi ad altri festival, come Cannes e Venezia…
Dipende molto dalle annate. Lo sforzo più grosso è sicuramente quello legato alla Piazza, perché non si tratta semplicemente di avere un film ma anche di avere un evento, che può essere l’ospite, o qualcos’altro che ruoti attorno al film: la Piazza non è soltanto una sala ma anche un palco. Ci sono anni in cui il concorso mi soddisfa più di altri, non tanto per la qualità dei film, quanto per una maggior “diversità”: nella speranza che ci sia una riconoscibilità della linea editoriale di fondo, auspico una diversità di proposte, film che parlino in maniera diversa al pubblico, opere contemplative che stanno accanto a film d’azione, e così via.
Quanto è complesso portare al festival di Locarno il cinema italiano? Ci sono pressioni di vario tipo che spingono i film italiani verso Cannes e Venezia, per via della copertura della stampa, ad esempio…
Questione spinosa… Il festival di Locarno si svolge in Svizzera ma pur sempre in un territorio in cui si parla l’italiano. Dunque se anche non è un festival italiano per nazionalità lo è per lingua, e di conseguenza la produzione italiana è importante da un punto di vista simbolico, oltre che di contenuto. Locarno ha la sfortuna, o la fortuna, di avere luogo un mese prima del più importante festival di cinema italiano, il più vecchio del mondo, e questo è un dato oggettivo. Io sono italiano, benché periferico, e quindi ho sempre avuto il desiderio di portare il cinema italiano a Locarno, e nel mio comitato c’erano due italiani (Sergio Fant e Lorenzo Esposito, ndr). C’è sempre stata anche la necessità di portare cinema italiano in Piazza Grande per determinati motivi e in concorso per altri. Detto questo, capisco che per un produttore italiano avere il proprio film a Venezia, anche in una sezione collaterale, abbia un fascino particolare, come per un film tedesco partecipare a Berlino… A volte la mia frustrazione derivava dal fatto che conoscendo abbastanza bene il sistema dei Festival, alla fine il film ci rimette. Ma è una mia valutazione, naturalmente: un film può scomparire, a Venezia, perché Venezia sta crescendo molto sul fronte dei film americani, e magari altri film non ottengono il dovuto riconoscimento internazionale. Ma ripeto, è un fatto comprensibile, benché dal mio punto di vista rappresenti uno dei problemi del cinema italiano, ancora troppo legato al mercato domestico.
Con la tua nomina alla direzione della Berlinale accogli un’altra sfida impegnativa, alla guida di un festival che vanta numeri invidiabili ma si configura anche come una struttura complessa, all’interno della quale potrebbe risultare più difficile imprimere una linea artistica. Quali scopi ti sei prefisso per questo tuo nuovo mandato?
La Berlinale è un festival che soddisfa la fame di cinema di una metropoli e che ospita uno tra i mercati più importanti al mondo. Insieme a Mariette Rissenbeek ereditiamo una macchina estremamente calibrata, frutto di anni di perfezionamento dove ogni ingranaggio sembra essere al posto giusto. Nonostante alcuni mesi di esplorazione ci sono aspetti che ancora conosco poco e che necessitano un’accurata riflessione. D’altra parte sono cosciente che non avrebbe senso replicare il modello precedente: il mio profilo, con le mie qualità e i miei limiti, è molto diverso da quello di Dieter Kosslick. Inoltre la presenza di due direttori impone anche dei cambiamenti di tipo strutturale. Pensiamo però che sia più giusto procedere gradatamente e darci il tempo di valutare ciò che è in atto prima di attuare cambiamenti. Per rispondere direttamente alla tua domanda, il primo obiettivo che mi sono dato è capire se sono all’altezza della sfida: il che significa da un lato non perdere la mia identità, che resta quella di uno spettatore critico e appassionato, e dall’altro non stravolgere un sistema che funziona molto bene. Una volta fatto questo penso che potrò guardare alle altre sfide con maggiore sicurezza e serenità.