Ci sono infiniti modi per raccontare il diverso e il regista fiorentino Federico Bondi preferisce la dimensione della normalità. Lontano da eccessi e stravaganze, il suo è uno sguardo attento, privo di pregiudizi, sovrastrutture e retorica, capace di posarsi con gentilezza sul potenziale che avvolge la quotidianità. Al centro del suo secondo lungometraggio di fiction c’è una trentenne affetta da sindrome di Down: capelli rosso acceso e passo deciso, Dafne avanza sicura per la sua strada facendosi largo nel mondo a colpi di ottimismo e ironia, anche quando, dopo l’improvvisa morte della madre, si ritrova sola con il malinconico padre, chiuso in una muta e solitaria depressione.
Vincitore del premio FIPRESCI alla Berlinale 2019, Dafne trova il proprio centro gravitazionale proprio nelle relazioni della sua protagonista. Dietro il personaggio di Dafne c’è Carolina Raspanti, capace di catalizzare l’attenzione e mettere tanto di sé al servizio di una narrazione cresciuta in simbiosi con l’attrice e adattatasi, come una seconda pelle, alle sue caratteristiche. Anche in un contesto finzionale non scompare la vena documentaristica di Federico Bondi, che racconta di aver sviluppato la sceneggiatura di Dafne dopo l’incontro con la sua musa ispiratrice: prima del film aveva infatti soltanto un’idea – la relazione fra un genitore e la figlia disabile – mentre la Raspanti non aveva mai recitato per il grande schermo.
Bondi non costruisce, o costruisce poco, ma trova. Scopre la ricchezza di sfumature che può regalare la persona e le mette in scena con la visione sensibile di un pittore che ritrae ciò che ha davanti come lo vede, come l’ha trovato, senza abbellimenti o patetismi. In Dafne si percepisce la limpidezza con cui il regista si avvicina al soggetto e lo asseconda facendo confluire i suoi segni particolari dentro al film. Carolina Raspanti veste dunque i suoi stessi panni: cambia nel nome, ma non nella sostanza, e se nella realtà lavora in un supermercato Coop, questo aspetto della sua vera vita rimane invariato anche nella diegesi, in un continuo, incessante scambio tra attrice e personaggio.
Ne nasce un film genuino, diretto, che proprio in questa trasparenza trova anche il suo rovescio, il rischio, cioè, di generare un processo in cui finzione e documentario possono soffocarsi a vicenda, e di sorreggersi in modo quasi esclusivo sulla figura nodale di Dafne attorno alla quale orbitano, come satelliti, gli elementi che compongono la storia. Stefania Casini, nelle vesti della madre, si eclissa velocemente (come da copione), lasciando ad Antonio Piovanelli, nel ruolo del papà, il difficile compito di tenere testa alla forza e irriverenza della protagonista. In questo confronto si gioca lo sviluppo della vicenda, una contrapposizione che soffre di uno squilibrio dato dal diverso, anzi opposto, approccio dei due attori. L’immedesimazione per Carolina-Dafne è totale, absoluta, libera dal vincolo di indossare una maschera, ma Antonio-Luigi è relato al suo personaggio, vi è costretto, e il risultato è uno scollamento quasi straniante.
Dafne è un ibrido, un film di buoni (e giusti) sentimenti che esalta la semplicità con una poetica delle piccole cose racchiusa nella toccante immagine del palloncino che Dafne conserva come un oggetto sacro: è una reliquia che contiene il respiro della madre, un ricordo tangibile eppure effimero di qualcuno che non c’è più. Come un palloncino, il film spicca il volo nei momenti in cui viene sostenuto dalla leggerezza della regia; quella stessa levità – vero pregio di Dafne – che permette a Bondi di trattare la sindrome di Down senza trasformare questa condizione, sempre presente ma mai invadente, nel fulcro della storia.