Prima di dire “adieu au language”, Jean-Luc Godard aveva cercato di comporre al cinema quell’irriducibile distanza tra la rappresentazione del paesaggio e quella del ritratto. Se Parigi si offriva riflessa nel volto di Marina Vlady in Due o tre cose che so di lei, un’altra percezione si ha nell’invertire la prospettiva, perdendo quell’unicità dello sguardo su cui riposa il primo piano per perdersi nella complessità del paesaggio. Ancorati ai volti dei propri attori, seppur partendo da idee di cinema distanti (l’estemporaneità consapevole della performance filmata, il divertissement alla base del cinema indipendente americano), Albert Serra e Aaron Schimberg hanno realizzato due film che mettono a dura prova il senso del primo piano e la sua capacità di catturare l’empatia dello spettatore. Dichiaratamente teorici, a iniziare dai presupposti che portano con sé nel corpo filmico (la filiazione con La Mort de Luis XIV per il primo, la citazione della critica Pauline Kael in esergo del secondo), le due opere lavorano sulla dissoluzione dello statuto attoriale per far affiorare in maniera diversa la vanità umana, non più dominatrice di un’immagine eccedente.
Da alcuni interpretato come una costola del film precedente, Roi Soleil di Albert Serra è piuttosto la risposta a un’opera in cui la magnificenza della morte del cinema (portata regalmente in scena da Jean-Pierre Léaud) era calata in una dimensione storica, che apriva il film a ulteriori riflessioni confinandolo al tempo stesso nell’accuratezza della messa in scena. Liberandosi di ogni orpello e ritornando agli elementi essenziali, Serra allestisce una performance in una galleria d’arte in cui reiterare per alcune settimane l’agonia di Luigi XIV, interpretato dal suo attore feticcio, Lluís Serrat: ne nasce un film unico, uno studio sulla performance attoriale, da sempre perno dell’elaborata riflessione artistica del regista catalano. Illuminato da una luce rossa, spettrale e luciferina, Serrat si aggira in uno spazio circoscritto senza sapere bene cosa fare, sospeso nella presenza massiccia dall’ineffabilità dello stato di moribondo. Il suo corpo possente è mosso da un disagio crescente, reso manifesto nell’uso impacciato dei pochi oggetti di scena (uno specchio, un laccio emostatico, qualche cuscino, un’alzata di pasticcini): il dolore cede il passo alla noia, il lamento diventa monotono, la distanza tra persona e personaggio crea faglie improvvise in cui avventurarsi (e perdersi). L’alternanza tra il campo totale e i ravvicinati primi piani – scelta stilistica che sottolinea la sobrietà del progetto – rende via via più evidente l’opacità dell’immagine. Più ci si avvicina al volto di Serrat, più si manifesta la vanità dell’attore nel cimentarsi con la morte: il suo impegno (a cui si partecipa come spettatori) non vale nulla, rivelando l’incapacità di far trasparire lo stato di grazia pre mortem la cui verità sarà sancita solo dall’annuncio del regista, cui spetta entrare in scena a decretare “la fine”.
La radicalità dei primi piani di Roi Soleil, in cui i lineamenti di Serrat scompaiono sotto la massa evanescente della parrucca e l’abbondanza della carne, si scontra con l’idea classica secondo la quale l’attore debba possedere lineamenti neutri, perché permettono al meglio l’identificazione dello spettatore e la centralità dello sguardo. Almeno così scrive Pauline Kael in apertura di Chained for Life, secondo film americano di Aaron Schimberg: “actors and actresses are usually more beautiful than ordinary people. And why not? Why should we be deprived of the pleasure of beauty? It is a supreme asset for actors and actresses to be beautiful; it gives them greater range and greater possibility for expressiveness. The handsomer they are, the more roles they can play. Actors and actresses who are beautiful start with an enormous advantage, because we love to look at them”. Ma se Kael si concentra sulla bellezza dell’attore, oggi sappiamo che in questo discorso è centrale la sua trasparenza, tanto da far assurgere a divi attori dalla gamma espressiva decisamente limitata, ma in cui lo spettatore riesce a specchiarsi più facilmente. Ritorna alla mente il discorso intessuto da Jean-Luc Nancy a proposito della centralità dello sguardo nel ritratto, che sancisce una distanza tra immanenza e essenza. Schimberg, servendosi della chiave del meta cinema, mette in scena il limite estremo dell’interpretazione, ponendo a confronto l’amabile e scialba Marbel (Jess Weixler) e il deforme Rosenthal (Adam Pearson), chiamati sul set di uno strampalato film di genere da un regista tedesco, che ha la voce di Herzog e la follia creativa di Fassbinder (ma nei risultati è più simile a Jess Franco). L’incontro tra la bella e la bestia è riassunto da una serie di campi e controcampi in cui i due giocano a restituire diverse emozioni, aiutandosi ad entrare nei rispettivi ruoli: la delusione, la gioia, l’empatia… Il volto totalmente sfigurato di Rosenthal è una maschera che nega ogni possibilità di far trasparire i sentimenti: gli occhi sono due buchi neri, incapaci di restituirci quello sguardo così centrale nelle arti figurative. Eppure è nel confronto con la perdita dei riferimenti, con un volto quasi trasformato in un paesaggio da decifrare secondo nuovi codici, che entra in crisi un’idea connotata di primo piano, lasciando gradualmente affiorare dal ribrezzo (cercato spasmodicamente dalla messa in scena del regista del film nel film) un’altro modo di percepire l’altro e l’arte cinematografica.
Ai limiti della rappresentazione, là dove con estrema consapevolezza si spinge Albert Serra e dove Schimberg immagina solo di dirigersi, avviene quello che Jean-Luc Nancy ha ipotizzato per il ritratto: “Nella pittura, il soggetto scompare nel fondo (ritorna a sé); nel soggetto, la pittura fa superficie (eccede la faccia). Sorge allora d’un tratto, né soggetto né oggetto, l’arte o il mondo”.