L’ultimo film di Mirko Locatelli si modella sulla quiete interrotta di Isabelle, un’astronoma francese trapiantata a Trieste. La narrazione, tutta racchiusa nella ripartizione asettica di un diario estivo, declina, servendosi della quotidianità della donna, gli spunti per almeno tre storie parallele: Davide, Anna, Jérôme e Isabelle, pur appartenendo a generazioni diverse, costituiscono le possibili sfaccettature dello stesso ritratto, quello della borghesia del remoto Nord-Est italiano. La sceneggiatura, premiata al Montreal World Film Festival, fonde linearità e complessità narrativa: la storia che ne deriva è semplice, ma poggia su un amplissimo orizzonte di possibilità diegetiche che non solo incuriosiscono, ma restano anche curiosamente sospese.
La regia modella inquadrature interamente occupate dai corpi: il corpo di Isabelle, maturo e goffo, è mostrato in pose intime e si contrappone, passando attraverso una sfumatura di linee anatomiche, a quello aspro del diciottenne Davide. Nessuna forma di sensualità emerge dalle relazioni e dai contatti fisici, che non esitano a sprofondare nel gelo di un desiderio empatico superficiale o negato. La centralità della rappresentazione dei corpi lascia pochissimo respiro alle dinamiche recitative, spesso volutamente poco lavorate: il cast appare così un’amalgama di interpreti professionisti e non, come Ariane Ascaride (attrice affermata, musa e moglie del regista Robert Guédiguian) e Samuele Vessio scelto tra gli studenti di una scuola superiore friulana. Questo determina la sensazione che l’opera manchi di un personaggio vibrante e ben riuscito, privilegiando piuttosto la descrizione di un ambiente, ritratto tra il centro urbano e la campagna circostante.
Ai divari recitativi si affiancano alcuni limiti nella composizione estetica: le piacevoli aperture paesaggistiche, inondate dalla luce marittima o da quella riflessa da immensi filari di vigne, appaiono a tratti manieristiche, mentre l’uso di una luce bianchissima su superfici appena lustrate rende particolarmente artificiosa la descrizione degli interni. Le solide mura della villa di campagna di Isabelle portano lo sguardo sul giardino, uno dei luoghi più significativi per l’evoluzione narrativa del film: lo spazio verde accoglie i riti svuotati di autenticità emotiva del “corpo” borghese rappresentato e, al contempo, le tensioni dei personaggi che vi prendono parte. La centralità del giardino e i modi e gli arredi che lo ornano potrebbero creare una reminiscenza del raffinatissimo racconto morale di Éric Rohmer, Le Genou de Claire (1970). Rohmer filma uno spazio che è al contempo delimitato e aperto, abbracciando con lo sguardo le catene montuose che contornano il lago di Annecy. Il giardino di Isabelle è più circoscritto, ma tormentato, allo stesso modo, da un interrogativo di ordine morale, che interessa la protagonista, ma, in modo ancora più diretto, suo figlio Jérôme (tra l’altro Jérôme è anche il nome dell’affascinante diplomatico al centro delle meditazioni elaborate nel film di Rohmer).
Nessuna riflessione coinvolge i protagonisti di Isabelle: assenti i dialoghi che illustrino psicologicamente e moralmente la condotta di Jérôme o quella di sua madre. Il problema dell’onestà, tanto urgente nella cornice del film, non è affrontato mediante una riflessione, ma è soppiantato dal peso delle azioni. Tuttavia l’azione non sostituisce il pensiero, ma lo nasconde, pulsante, sotto l’espressività dei volti e dei corpi, affinché non entri direttamente in scena. La casa, l’automobile, i compensi economici e la buona condotta lavorativa decretano nel film il trionfo della materialità sull’esistenza, dell’espressività fisica sul dialogo, mettendo a punto un ritratto della borghesia contemporanea che, nonostante diverse lacune, appare nel film estremamente incisivo.