Raccogliere la pioggia con un impermeabile teso tra gli alberi, mimetizzare la tenda con frasche, felci e fango, raccogliere funghi e cucinarli su un piccolo fuoco acceso con la scintilla di un acciarino. E studiare su una vecchia enciclopedia di carta, lavarsi con l’acqua fredda e curare un piccolo orto, proteggendolo dalle gelate, giocare a scacchi, concentrati e complici, nel cuore di Forest Park, il grande polmone verde fuori Portland, nell’Oregon. La vita di Will, giovane padre vedovo e reduce di guerra, esperto in tecniche di sopravvivenza, e di sua figlia Tom, sembra un campeggio scout, intervallato da esercitazioni e da qualche necessaria discesa in città, per procacciarsi scorte di farmaci, cibo e attrezzi. Will e Tom vivono così, lontani dal mondo e dall’umanità, dal brulicare della metropoli, dall’obbligo delle relazioni, delle formalità, dei moduli precompilati: è una vita dura, ma è la loro. Il mondo fuori – che non può tollerare defezioni dal modello urbano, del consumo e della compravendita e che, in fondo, non può considerare dignitosa la vita di chi lo rifugge – pretende che padre e figlia rientrino nell’ovile sicuro e codificato della civiltà.
Il racconto di Peter Rock, My abandonment, da cui Debra Granik ha tratto il suo film (a otto anni di distanza dall’acclamato Un gelido inverno), è ispirato a una storia vera che nel 2004 fece grande clamore negli USA: un reduce di guerra, traumatizzato dalle atrocità del fronte e membro di un reparto i cui commilitoni si suicidavano uno dopo l’altro, si nascondeva da anni insieme alla figlia in un piccolo accampamento nel bosco, rifiutando qualsiasi contatto con quel mondo che gli aveva distrutto la vita. La Granik intuisce la potenza simbolica di questa storia e porta il suo sguardo là dove tutto si regge e dà un senso a quella disperata resistenza contro l’esterno: l’amore che lega quel padre sofferente e smarrito, tormentato dagli incubi, e quella figlia così forte e responsabile, orgogliosa e perfino materna. È tutto lì, nella tenerezza di quel reciproco sostenersi e difendersi dal peso del passato, per lui, e dall’inquietudine del futuro, per lei.
La natura, protagonista silenziosa, è madre severa, casa, tempio, campo di battaglia: l’occhio della regista si sofferma sui dettagli, per restituirne i molti verdi, l’umido e il ghiaccio, l’acqua che scorre e il vento che scarmiglia le fronde. Fotografia, luci e suoni sono al servizio di questa cornice, nella volontà di rispettarne l’integrità estetica e narrativa: è la natura, dopotutto, che offre gli espedienti per gli snodi della storia, all’inizio nel bosco e dopo nella cittadina in cui Will e la figlia sono costretti dalle autorità a trasferirsi; poi nuovamente nella foresta, questa volta più infida e minacciosa e, infine, nella comune di dolci reietti in cui trovano rifugio, luogo di mezzo tra l’eremo e la città. È nell’intima battaglia tra la fuga, il nascondimento e la reciproca accettazione tra i protagonisti e il mondo che si consuma quel percorso dall’interdipendenza, attraverso la maturazione, fino alla commovente presa di coscienza di essere arrivati a un bivio, davanti a cui dovranno scegliere due sentieri diversi. Perché è quando Tom si scontra con il mondo esterno che è costretta a domandarsi se, in fondo, il suo posto non sia lì, da qualche parte, in mezzo agli altri.
Nella tensione tra il primordiale e il sociale, la Granik costruisce un’opera massimamente allegorica: Leave No Trace è un film politico, un atto di accusa contro la guerra e contro gli eserciti, contro il capitalismo e il consumismo, eppure del tutto privo della demagogica leziosità di alcuni “cinemanifesti” ideologici. È, per giunta, un racconto senza nemici: le persone che compaiono e scompaiono sono empatiche e comprensive, si mettono a disposizione dell’umanità che hanno intorno, chi con entusiasmo, chi con curiosità, con spirito di servizio, diffidenza o compassione. Si mette in scena, così, una sorta di utopia gentile, in cui l’unico vero antagonista è quel “sistema totale” il quale, nonostante la sua incombente capacità di dominio, viene tenuto ai margini del racconto, remoto.
La storia di Will e Tom è, perciò, solo la storia di un padre e una figlia, e della loro personale forma di resistenza. Ma, grazie a quella tormentata consapevolezza che amarsi può significare anche separarsi, la Granik racconta la storia di tutti i sopravvissuti, della loro buona volontà e della loro resilienza, dei loro canti intorno al fuoco per scaldarsi un poco l’anima ferita, respinta fino ai margini della storia, senza lasciare traccia.