È possibile riconvertire un non luogo e insufflargli un’anima? Si può impiantare una profondità materica a uno spazio di pura superficie?
Il parco tecnologico di Sophia Antipolis – al centro dell’omonimo film di Virgil Vernier – situato nella Costa Azzurra, si mostra come in tutta la sua convessità priva di qualsivoglia punto di appoggio. Bagnata da un corroborante sole mediterraneo, Sophia Antipolis somiglia però più a un deserto o, al massimo delle sue potenzialità, a un miraggio tra i più temibili e infidi: un terreno d’investigazione dove cercare una ragazza scomparsa; una stazione di passaggio nella quale si prova a impiantare una parvenza di vita.
E lo sconforto, si sa, è ancora più cocente e caustico alla luce ostinata e ai ritmi placidi di un far niente tutt’altro che dolce. Più che paradiso rivierasco – nei pressi della Baia degli Angeli che, già ne La grande peccatrice (1963) di Jacques Demy, palesava tratti nient’affatto serafici – Sophia Antipolis è allora un’incubatrice di sogni da discount che potrebbero insorgere in qualsiasi persona gravitante attorno a questo polo. Neppure la pellicola 16mm, con la sua granulosità coriacea, riesce a spremere un barlume di nuda vita, e persino gli insistiti piani della spiaggia e dei tramonti iridescenti assumono quei tratti convessi e “plastici”.
Resta soltanto spazio per un’esistenza spettrale e larvata nei colori delle notti al neon, durante le quali una ronda paramilitare si aggira lungo i viali squadrati e indistinguibili l’uno dall’altro per riportare l’ordine che, solitamente, consiste nello stendere un molestatore o, peggio, nel distruggere una baraccopoli: ennesimo paradosso di una ghost town piena di alberghi ma avversa all’accoglienza. I profughi, così come i corpi pingui e incanutiti degli anziani, fanno parte di ciò che deve essere rimosso: essere laido significa, difatti, non rispettare un certo canone estetico che, in quanto tale, è vincolato a mirare all’impersonale, al n’importe qui. Per ragioni simili, le donne desiderano ricorrere alla mastoplastica per correggere dei seni tutt’altro che spiacevoli alla vista, mentre la macchina da presa le inquadra come se fossero intervistate (e forse da essa giudicate troppo frettolosamente).
Piegarsi alla legge – giuridica, divina, cosmetica – permette così di tutelare la «dignità di una nazione morale». La concezione stessa del parco tecnologico – e, per estensione, dello Stato – è quella di produrre delle identità già previste, contemplate nell’ordine delle cose, disinnescando lo scarto esplosivo della “singolarità qualunque”[1].
Davanti a uno sfondo scarno e lucente, i corpi dei personaggi lottano contro la vacuità annichilente di un’esistenza condannata alla ripetizione sempre identica, serializzata. La prevedibilità non ha tuttavia nulla di rassicurante, persino al momento della buonanotte: la storia dei tre porcellini è stata già sentita mille volte e sottopone il bambino a un’ordalia esistenziale non dissimile da quella degli adulti.
Ogni azione è condannata a una ritualità vuota: la contemplazione di un paesaggio, l’esercizio del potere, l’aspirazione alla bellezza. Sophia Antipolis è insomma una zona grigia dello spirito che anela a un altrove e che confida nell’esistenza di un’altra forma di vita, nell’avvento del nuovo come ritorno liberatorio alla foresta soppiantata per la creazione del parco tecnologico. Aleggiano i fantasmi e la loro promessa di autenticità, sonnecchiante in quell’invisibile cui tutti tendono nella speranza di riconsegnare al silenzio un’esistenza votata all’inanità, la stessa che deve avere permeato la ragazza scomparsa, che della città portava il nome, poi cambiato in Sonia.
Sophia/Sonia incarna chiunque ambisca a essere altro e pretenda un cambiamento che si attui tuttavia entro la staccionata della propria villa, prescindendo da una dimensione comunitaria effettiva: la comunità religiosa e il corpo paramilitare costituiscono quindi la risibile estensione di quello stesso microcosmo “familiare”, a sua volta composto da monadi che hanno reciso ogni volontà di interconnessione. Allo stesso modo in cui Sophia crede che cambiare il proprio nome possa condurla verso la realizzazione e la felicità, la società – nel suo operare unicamente sulle Parole, tralasciando, di fatto, le Cose – è parimenti condannata allo scacco, a un cambio di facciata, come quello della parete ritinteggiata in chiusura: uno strato di vernice che copre i misfatti e ogni altro piccolo orrore quotidiano, anche se soltanto fino all’emergere di una nuova crepa.
[1] Cfr. G. Agamben, La comunità che viene, Bollati Boringhieri, Torino 2001.