“No, incomincio io con una domanda”. Alberto Fasulo ribalta così, fin dall’inizio, il tentativo di indagare il suo cinema attraverso i procedimenti convenzionali: con una piccola eresia iniziale, un cambio di prospettiva inusuale per un’intervista, un breve momento mosso forse dall’intimità. “Vi aspettavate un film così?”: Menocchio, ultimo lavoro di Fasulo ed esordio personalissimo nella finzione, esprime una forza cinematografica inattesa, che vive oltre i limiti dello schermo e la durata della visione, testimonianza di un’avventura cinematografica vissuta secondo i criteri dell’intensità e della passione, pensata nel tempo fino all’effettivo momento di realizzazione.
Ci avevi già parlato di realizzare questo film, alcuni anni fa…
Non potevo non fare questo film, lo sognavo di notte. Certo, era facile e meglio non farlo, perché nessuno pensava fosse possibile. La fortuna è stata Paola Malanga, che mi ha detto “Ci credo, sono curiosa di vedere cosa puoi fare”. È stato molto utile anche poter girare un teaser, che ho realizzato dopo aver parlato con Marcello (Martini, l’interprete di Menocchio, ndr). E infatti ho realizzato il valore del progetto quando nel breve girato è comparso lui: un’intuizione che ho avuto quando l’ho scelto come protagonista e si è concretizzata durante quelle brevi riprese grazie alla sua entrata in scena. Ha modificato la realtà. A quel punto si è iniziato a parlare di possibilità concrete, di budget, anche di cose a cui non sono mai stato abituato e che mi sono state concesse.
La Rai è entrata da subito nel progetto? E poi il Ministero?
Esatto. Sono andato a Trento e a visitare il Castello del Buonconsiglio. Lì ho sentito il film, e anche se in commissione mi dicevano che non l’avrebbero mai reso disponibile per due settimane di riprese, grazie alla vicinanza dei luoghi del film, con l’ufficio stampa siamo riusciti a ottenere il palazzo: quando i film devono nascere…
Come hai trovato invece Marcello Martini? L’avevi incontrato prima delle riprese?
L’ho conosciuto e scelto tempo prima del teaser e c’è stato un percorso relazionale. Mi ha attirato in primis per la sua energia. Per scovarlo ho scandagliato le due valli dove abbiamo fatto le prime riprese, incontrando moltissime persone, cercando a fondo nei luoghi e arrivando anche a risultati inattesi. L’attore che interpreta il secondino, per esempio, stava facendo il cameriere nel ristorante del Castello e, anche se non era la mia prima opzione, l’ho scelto. È una delle prove che Menocchio è un film realizzato con l’istinto.
Ci incuriosisce il fatto che abbiate scritto il film partendo dagli atti. Avevi in mente fin dall’inizio l’arco narrativo e gli ambienti? Perché sembra un film costituito dalla materia di cui sono fatte le cose, del mondo; la fattura degli elementi di scena e dei personaggi non è indifferente, è un cinema molto tattile. Questa tattilità, che si sente meno negli altri tuoi film, l’hai trovata grado per grado?
Gli altri film erano differenti. Per determinate ragioni non potevo essere tattile. Forse questa sensazione è dovuta al fatto che in Menocchio il concetto di matericità era un punto di partenza, un bisogno personale. Ho cercato questa matericità già in fase di scrittura, e comunque ne avrei voluta molta di più di quanta alla fine ho ottenuto. Forse avrei dovuto organizzare le cose in maniera diversa, ma non avevo calcolato la difficoltà della gestione di trenta persone e otto settimane di ripresa. Nel documentario mi coordinavo da solo e invece qui dovevo pre-organizzare. Ciò non toglie che abbiamo vissuto momenti di forte intensità: siamo stati sette giorni in una stalla aspettando il parto di una mucca. Questo mi ha concesso il tempo necessario per ottenere certi risultati, allo stesso modo in cui conoscere e poter lavorare a stretto contatto con i membri della famiglia che poi hanno interpretato i personaggi ha creato il giusto ambiente di lavoro. Ogni settimana ci incontravamo, cucinavamo insieme, mangiavamo insieme. Abbiamo incominciato a capire che il film lo facevamo noi, è stato un film compartecipativo ed è quello di cui avevo bisogno: sul set oltre a me, il fonico e l’assistente alla camera, non c’era nessun altro. Il lavoro fatto in anticipo con lo scenografo ha però aiutato a porre le basi più di quanto abbia fatto la sceneggiatura. La scrittura si è impossessata delle location e dei personaggi solo dopo aver trovato quest’ultimi fino al momento delle riprese; poi ho tagliato i contatti con lo scenografo e lo sceneggiatore e ci siamo rivisti al primo rough cut.
È interessante sentire che avete condiviso questa vicinanza, questa volontà di fare vostro il film. Quale pensi sia stato lo scambio tra te e le persone che hai coinvolto?
Il desiderio. Piano piano siamo entrati in un’esperienza, in un viaggio. Uno dei problemi del film è stato che, quando abbiamo finito, moltissimi non riuscivano a uscirne, ed è stato un distacco violento. C’era un forte livello di partecipazione emotiva, non abbiamo mai provato quello che abbiamo fatto in scena, perché avrei tolto unicità ai singoli momenti. Abbiamo invece cercato di avvicinare il più possibile la realtà: non ho mai fatto leggere la sceneggiatura agli interpreti, chiedevo loro di concentrarsi solo sul presente della scena. Il lavoro finale è molto lontano dal testo di partenza, anche se il film è stato girato con rigore, cronologicamente, una scena al giorno con solo sette ore di continuato. Ho scelto di non mettere le luci e quindi ho dovuto scegliere l’ora giusta per ogni location, impostando il tempo per arrivare con puntualità nei momenti con una resa migliore. Facevo una sorta di riscaldamento e poi arrivavo a un ultimo, decisivo take.
Entriamo nel merito delle scelte tecniche sull’illuminazione.
Abbiamo costruito noi le candele. Le imperfezioni di fotografia sono dovute a scelte precise e a una volontà personale di girare in modo molto definito. Non usando attori (non attori non professionisti, ma proprio non attori) non potevo produrre un riconoscibile contesto di finzione. Non avrebbero reagito, sarebbero rimasti ingessati. Anche lavorare in apertura totale e cercare continuamente la luce è stato rischioso a livello espressivo, ma l’importante in entrambi i casi era cercare e trovare l’emozione. Persino in fase di montaggio, allargare e spezzare i primi piani con inquadrature più ampie era una necessità degli altri, non mia.
Si percepisce la volontà di cercare qualcosa e trovarla sperimentando…
Ho girato muovendomi in base al sentimento, ed è il motivo per cui faccio – e farò finché potrò – questo mestiere: per i contrasti, per la costante sensazione di empatia. Mi interessava l’emozione degli attori, non le loro parole, infatti non ho chiesto quasi nulla agli interpreti; ho lavorato con ognuno di loro separatamente e a ognuno spiegavo la storia dal suo punto di vista, a volte attuando delle false aspettative per sorprenderli, a volte anche proponendo degli esercizi: in una scena di incontro cruciale ho chiuso due interpreti in una stanza buia per una mezz’ora per renderli emotivamente pronti. Per il personaggio di Menocchio invece ho dovuto allontanare Marcello da tutti. Queste condizioni hanno creato un forte stato di realismo emotivo. Non volevo che lo spettatore avesse dopo i primi tre minuti la sensazione di vedere un film storico, era necessario togliere i cinquecento anni di distacco con gli eventi raccontati, sentire che le domande fatte a Menocchio diventavano domande fatte a me, a noi. Non avevo interesse a fare un film filologico, né a consultare gli archivi riguardanti Menocchio; era necessario chiedersi con quali rischi quest’uomo era andato contro il mondo, con quale emotività aveva compiuto le sue scelte. Io dove sono rispetto a Menocchio? Vorrei essere Menocchio, ma in realtà chi sono? Questi erano gli interrogativi da inseguire e li ho inseguiti rispondendo a una mia necessità, attraverso la storia di un individuo e della sua comunità, in particolare di una comunità distrutta dalle sue convinzioni.
Durante la scena del carnevale si entra in un’altra dimensione. Era stata concepita così fin dall’inizio?
Era tutto già scritto. La scena del carnevale è stata l’ultima cosa che abbiamo girato. Leggendo Gargantua e Pantagruel di François Rabelais si capisce però che i carnevali medievali erano caratterizzati da una forte dose di violenza. Una violenza a cui, per motivi di denaro pubblico, non potevo accedere. Per lo stesso motivo, la prima versione della sceneggiatura – che era piena di bestemmie – è stata totalmente alleggerita. In ogni caso il carnevale era un momento che mi permetteva di afferrare e accedere a una dimensione di volgarità. Per riprendere invece la tortura è stato necessario ragionare con cautela, perché quando si lavora in tali condizioni di vicinanza, si tratta di soffrire assieme. Quando ho girato la scena finale ero molto preoccupato per Marcello, ed è stato forse anche un limite rispetto al film. Un regista deve essere crudele, in certi casi, ma io non ci riuscivo e in quella scena ho lasciato la macchina per abbracciare Marcello, per occuparmi di lui. In quel momento ho sentito il film, ed è stato bello.
[con la collaborazione di Leonardo Strano]