Nel 1976 Carlo Ginzburg pubblicava un saggio storico edito da Einaudi intitolato Il formaggio e i vermi. Testo cardine per la corrente di ricerca storiografica nota come microstoria e sviluppatasi intorno alla rivista Quaderni storici, il saggio ebbe il merito di portare alla luce la vicenda di Domenico Scandella, detto Menocchio, mugnaio friulano di Montereale Valcellina vissuto tra il 1532 e il 1600 e processato in due riprese, per essere infine condannato al rogo, dall’Inquisizione della Chiesa cattolica romana. Attraverso la storia di un uomo di umilissimi origini, capace di leggere e scrivere e suo malgrado travolto dalla violenza della cultura ufficiale per aver promosso un disegno cosmogonico diverso da quello creazionista, Il formaggio e i vermi non solo dimostrava e dimostra l’eterna azione sotterranea della cultura popolare, spesso tacciata di letterale o simbolica eresia, ma rivendica il ruolo delle classi subalterne all’interno di una ricerca storica quasi sempre orientata in prospettiva del potere.
Partendo dagli stessi verbali processuali che interessarono il saggio di Ginzburg, Alberto Fasulo realizza nel 2018 la versione cinematografica di una vicenda che, prima ancora di voler essere ricostruzione storica, scarica tutta l’elettricità di un cortocircuito tra passato e presente. Presentato in concorso a Locarno, quarto film di Fasulo e suo esordio nella finzione – pur con un fortissimo debito metodologico alla produzione documentaristica pregressa, specialmente nel lavoro sulla recitazione – Menocchio è l’energica, materica messa in scena del discorso culturale e politico tra individuo e territorio, dove a contrapporsi sono due dispositivi di relazione drammaticamente inconciliabili: da una parte il silenzioso corso della natura, l’ascolto del mondo che nutre la fantasia e l’immaginazione, dall’altro il primato ordinatore della parola che il potere ufficiale pretende di esercitare, e declinare, per disciplinare la società secondo il proprio disegno. Conflitti evidentemente capaci di poderose eco sul presente, dove il diverso, oltre a generare e alimentare i fantasmi della paura, è l’emblema del tradimento a quella forma di ipertrofico controllo della cittadinanza alla base di una gestione antidialettica dell’esistente.
Il contrasto o – per meglio dire – la dinamica radicale entro cui dialogano il fuoco, metafora doppia della luce della ragione e della condanna al rogo, e il buio, spazio esistenziale quasi insostenibile per chi si posiziona al di fuori del pensiero dominante, diviene il motore di un personalissimo cesello di regia, estraneo a retoriche e sentimentalismi, dove non solo Menocchio si contrappone ed è contrapposto allo stuolo anempatico dei suoi inquisitori, ma esiste anche uno sguardo collettivo e testimoniale, quello del popolo sullo sfondo, che di fronte al processo al mugnaio diviene potenziale conduttore di un vago slittamento delle coscienze, tuttora lontano – il film non può non suggerire, pur con estremo rigore – dal proprio pieno compimento.
Fasulo unisce alla necessitas della lezione rosselliniana la prossimità prismatica di una camera a spalla assetata di reale, a partire dai primi piani sul volto scavato del protagonista, e rafforza il ritratto socratico di un uomo che, pur spinto dal bisogno ineludibile di non rinnegarsi, di non tradirsi mai, si sottrae anche all’ottusa e imperturbabile presunzione di verità dei suoi inquisitori. Emblematica la sequenza onirica in cui Menocchio, alla vigilia dell’abiura cui cederà in conclusione al primo processo, affronta intorno a sé tutti i fantasmi di una fantasia oscura e solitaria, frutto della mente di un singolo, germe e limite di un pensiero autonomo, altro, ormai quasi nemico.
Menocchio mette insomma in quadro – con una sintesi che trascende tutte gli eventuali, ingegnosi espedienti produttivi, per farsi effettivo linguaggio – il conflitto morale della differenza e quello politico della lotta di classe: davanti alle effigi pittoriche che decorano le pareti del tribunale dove viene processato, immagini apparentemente inattaccabili perché autorizzate e rappresentative del potere, Menocchio non si limita a rivendicare il diritto del singolo a nutrire le proprie visioni, ma duramente smaschera il legame tra religione e ricchezza, che riduce la povertà a schiavitù del pensiero e impedisce alla vita terrena di immaginarsi paradiso. Proprio come nella scena in cui la Chiesa, sfruttatrice della forza lavoro dei contadini, ordina loro di erigere nel cielo un enorme crocefisso di legno, vuoto di significato, se non quello di un timorato asservimento.