« Si sa che il festival di Venezia, che deve iniziare prossimamente (25 agosto-7 settembre), solleva vivaci controversie. Il suo direttore, prof. Luigi Chiarini, aveva spiegato, nel numero del 13 luglio del giornale, il senso della sua azione per un festival “aperto a tutte le forze vive dell’intelligenza”. Da allora la polemica, in Italia non è mai cessata: gli attacchi quotidiani nella stampa si sono moltiplicati. Nello stesso periodo da parte di un deputato socialista veniva presentata alla Camera una interrogazione scritta in cui si chiedeva di rinviare il festival fino all’approvazione del nuovo statuto. Il PSU, da cui Chiarini si è dimesso, si è del pari associato a questa campagna. Jean-Louis Comolli, redattore capo della rivista “Les Cahiers du cinéma”, che ha incontrato a Roma i cineasti di diverse tendenze, pone qui il problema. Ed ecco il resto dell’articolo:
“Dopo Cannes, dopo Pesaro e Avignone, sembra che Venezia non sarà risparmiata dall’attuale crisi dei festival. Ma nel caso della Mostra veneziana ci si può domandare se la minaccia di boicottaggio che pesa su di essa nasca dalla stessa contestazione globale che da maggio turbò o sospese gli altri festival. I primi contestatori di Venezia non furono in effetti né i cineasti come a Cannes, né l’avanguardia del teatro come ad Avignone, né gli studenti o i movimenti politici: furono, per strano che possa sembrare, i produttori affiliati alla Federazione internazionale dei produttori di film (FIAPF) che, per i primi, tre mesi addietro, si imposero molto ufficialmente la consegna di boicottare il festival di Venezia rifiutando di farvi partecipare le loro produzioni. Ora la Federazione internazionale dei produttori, dominata dalla potente associazione dei produttori americani (MPAA) non è un organismo particolarmente considerato per le sue audaci contestazioni. I motivi invocati da questi vigilanti guardiani del commercio cinematografico per giustificare la loro opposizione al festival di Venezia non lasciano d’altra parte sussistere alcun dubbio sul senso di questa opposizione e della sua coerenza con la politica generale della Federazione: precisamente per questo il direttore del festival di Venezia, Luigi Chiarini, annunciò, alla fine del mese di maggio scorso, la sua intenzione di organizzare durante il festival un dibattito sul tema ‘Cinema e Politica’ al quale parteciperanno i principali leaders studenteschi del mondo intero (tra i quali Sauvageot e Cohn-Bendit); la Federazione internazionale dei produttori fece sapere che non si trattava ormai più per i suoi membri di recarsi a trattare i loro affari in un festival ‘politicizzato’ e aperto agli ‘arrabbiati’. E in effetti non si vede in che modo un organismo e dei produttori, tutti dediti al cinema di consumo, avrebbero potuto accettare di essere un solo istante messi di fronte a tutti coloro, non solamente studenti, ma anche cineasti e produttori indipendenti, che rifiutano la società dei consumi e non accettano più che il cinema rimanga uno dei suoi più fedeli alleati e servitori. Coerente con se stessa, tanto ideologicamente che esteticamente, la Federazione dei produttori lo è distinguendo nel cinema due correnti opposte: l’una puramente di distrazione e neutra, che contribuisce fortemente alla alienazione dello spettatore, l’altra polemica e politica, ‘pericolosa’ in quanto si sforza di contrastare questa alienazione.
Ora, da qualche anno (da quando Luigi Chiarini ne è direttore) il festival di Venezia nasconde sempre meno la sua preferenza per la seconda corrente, divenendo sempre più apertamente coi film di Godard, di Pasolini, del giovane cinema tedesco, un festival di cinema politico, a tutto danno dei produttori che lavorano a Hollywood e per Hollywood. Si comprende dunque molto bene come il sig. Chiarini sia rimasto coerente con la sua linea organizzando un dibattito sui rapporti tra il cinema e la politica così come la Federazione dei produttori è restata coerente con se stessa rompendo le relazione con Venezia. Quello che si comprende meno facilmente è la posizione di un certo numero di cineasti e di partiti politici di sinistra italiani che, scavalcando la FIAPF, hanno a loro volta chiesto il boicottaggio di Venezia. Per ragioni, è da supporre, molto differenti da quelle delle ‘maggiori compagnie’ americane, ma che non possono impedire di farne degli alleati, magari momentanei, di questo sindacato di produttori, che è da molto tempo e resterà ancora il loro principale nemico. Non ci si può dunque che meravigliare di vedere l’ANAC, associazione di cineasti italiani politicamente situata a sinistra, così come il PCI, il PSIUP e il partito socialiste richiedere d’accordo con la istituzione più conservatrice del cinema, che il Festival di Venezia quest’anno non abbia luogo. Il pretesto avanzato dai cineasti dell’ANAC e i partiti politici è che è necessario che il governo italiano proceda a una revisione dello statuto (elaborato, come la quasi totalità delle leggi italiane, sotto il regime mussoliniano) non solamente del Festival, ma della Biennale di Venezia (pittura e musica) da cui dipende. Sulla necessità di cambiare codesto statuto considerato come fascista, c’è unanimità in Italia ed è d’altra parte proprio Luigi Chiarini che per primo aveva intrapreso a modificare di fatto il regolamento e i princìpi su cui si basava il Festival, poiché egli ha potuto nonostante questi piegarlo in senso politico e trasformare un’istituzione tradizionalmente al servizio del commercio in competizione sempre più favorevole alle forme più moderne di cinema, ai cineasti e produttori più indipendenti, a detrimento del mercantilismo e delle feste (ricevimenti, smoking, ecc. soppressi a Venezia) che lo accompagnano. Per contro, presso i cineasti italiani l’unanimità è lontana dall’essere raggiunta circa l’utilità, per modificare lo statuto della Biennale, di ricorrere al boicottaggio del Festival stesso. Qualche cineasta (e non dei minori: Rossellini, Pasolini, Bertolucci, Baldi, Fellini, Antonioni) si sono pubblicamente schierati contro l’assurdità di non partecipare al Festival nelle circostanze presenti, poiché ciò significherebbe fare direttamente il giuoco dei produttori che non vogliono un Festival politicizzato. Tuttavia l’ANAC sembra decisa a impedire o per lo meno a turbare lo svolgimento del Festival ed ha associato al ‘comitato di boicottaggio’, oltre che i partiti di sinistra italiani, alcuni movimenti studenteschi e operai. Ci si può domandare se costoro hanno coscienza che il cinema è anch’esso luogo di lotta tra forze conservatrici e forze rivoluzionarie e che il Festival di Venezia è stato e può essere ancora di più quest’anno l’avversario dei primi e l’alleato dei secondi. Tanto più che – in ragione precisamente del boicottaggio della Federazione internazionale dei produttori – il programma del Festival non comporterà quest’anno che produzioni indipendenti, film non conformisti, opere di rottura sul piano estetico come sul piano economico delle norme consuetudinarie del cinema commerciale. È giusto che si tenga un dibattito su quello che è e che può essere un cinema politico, dibattito al quale parteciperanno venuti da tutto il mondo, cineasti e teorici, grazie ai quali il cinema politico è di già una realtà.
Per i cineasti e i critici, ai quali spetta accrescere l’indipendenza sia estetica che economica del cinema, si tratta dunque di scegliere tra partecipare al prossimo Festival di Venezia accentuando il suo orientamento politico oppure boicottarlo, ma sapendo che questa decisione non sarà senza conseguenze meno per l’avvenire del Festival stesso che per quello del cinema di contestazione”. »