Ogni secolo termina in quello successivo: la Grande Guerra segna lo spartiacque per un’Italia che ha faticosamente trovato la sua unità, lottando per superare le strutture ideologiche in cui è stata costretta per centinaia di anni. Proprio all’alba di questa forte cesura, fioriscono in tutta Europa le comunità utopiche, entro le quali artisti e intellettuali hanno elaborato un nuovo stile di vita vicino alla natura e influenzato dalle culture orientali: lì sono cambiate la psicanalisi e la danza, lì le donne hanno sperimentato una libertà impossibile nei rigidi codici della società. Parlare oggi di esperienze come quella di Capri o del Monte Verità di Ascona significa fare i conti con i prodromi di una cultura che si appresta a diventare di massa, ma anche raccontare un polo segreto che ha contribuito all’elaborazione di una nuova società.
Dopo l’azione di Noi credevamo e il pensiero di Il giovane favoloso, in Capri Revolution – unico film in italiano tra quelli presentati in Competizione – Mario Martone si confronta con le pulsioni più esoteriche della storia italiana, costruendo un melodramma in cui la giovane e vivace pastorella Lucia (interpretata da una convincente Marianna Fontana – una delle due gemelle rivelate proprio qui a Venezia da Indivisibili un paio d’anni fa) si trova al vertice di un triangolo tra il razionale medico socialista Carlo (Antonio Folletto) e lo ieratico leader di una comune d’artisti, Seybu (Reinout Scholten van Aschat). Ad irretire la ragazza non sarà né il progresso in cui crede il medico né l’illuminazione che intende raggiungere il santone, bensì la propria libertà: l’essere in sintonia con il proprio corpo per poter evadere da una società che la vuole solo moglie obbediente.
Composto per mezzo di quadri che sottendono l’immaginario dei pittori simbolisti, Capri Revolution tenta di opporre anche formalmente le diverse visioni dei due uomini, in un film che passa dai momenti liberi e appassionanti della comune (in cui la macchina da presa è mobile tra le danze dei giovani intellettuali creativi, spesso nudi) alle riprese statiche di una società che sta lentamente cambiando attraverso gli interventi politici del medico e l’introduzione della professionalità (raccontata con statici campi e controcampi). Ma all’interno della polarizzazione qualcosa non funziona, riducendo il medico a un figurino impettito ed evitando di esplorare fino in fondo la dimensione più oscura della vicenda, spesso sottesa a queste forme sociali utopiche, talmente avanti nei tempi da essere spesso percepite come uno strappo da chi ne ha fatto esperienza.
Al netto di didascalismi, Martone si riappropria della Storia e della sua memoria in un momento di crisi culturale, chiudendo la sua trilogia sullo spirito fondativo della nazione con le migrazioni verso il Nuovo Mondo, consegnando Lucia a un viaggio che porterà oltre oceano l’anima indomita di un Paese in piena trasformazione. [Daniela Persico]
IN UN LUOGO COMUNE
Nuvole che corrono veloci sul cielo, la terra secca martoriate dal vento, le vacche, i pascoli, i campi di grano turco. Una scritta bianca, su sfondo nero: Monrovia, Indiana.
Il maestro del cinema documentario Frederick Wiseman torna alla soglia dei novant’anni con un lavoro che si presenta già dai primi minuti come una sfida. Presentato Fuori Concorso a Venezia 75, Monrovia, Indiana è infatti il primo film girato dal cineasta statunitense in una cittadina del Midwest. Un anno dopo l’esplorazione della New York Public Library, Wiseman ci porta in un piccolo centro della Corn Belt (Monrovia, appunto, nello Stato dell’Indiana) popolato da poco più di mille anime, offrendo una complessa carrellata della vita quotidiana dei suoi abitanti, così lontani e incompresi dai connazionali delle grandi città della costa orientale e occidentale degli Stati Uniti.
In un luogo comune, potenzialmente uguale ad ogni altra cittadina della provincia americana (o perlomeno, così vicina all’idea che ci siamo fatti di essa) Wiseman mette lo spettatore in una posizione di ascolto di fronte alle situazioni più disparate, non senza un certo distacco talvolta ironico ma mai giudicante: dalle elucubrazioni sul valore dello sport nelle high school ai sermoni in chiesa, dalla celebrazione per i 50 anni di affiliazione di un membro della loggia massonica locale alle aste per trattori intrattenute da un banditore scioglilingua, dagli annunci pubblicitari surreali al supermercato alla clinica veterinaria specializzata nell’operare pulizie dei denti ai cani di razza.
Dal consueto incedere narrativo, dove una serie di sequenze auto inclusive vanno accumulandosi le une altre, emerge la volontà di comprendere un soggetto più volte raccontato e trasfigurato fino alla banalizzazione, ma mai esplorato a fondo: la classe media bianca americana di provincia, stanca e invecchiata, capace di condurre un’esistenza lontana da qualsiasi tipo di conflitto interno ed esterno (sono un esempio in questo senso le riunioni ricorrenti del consiglio comunale, dove, nel discutere l’ampliamento del quartiere popolare di Homestead regna un’unanimità pressoché totale nel dibattito pubblico: opposizione e maggioranza sono indistinguibili).
Non è casuale che, in una selezione veneziana dove il documentario americano è quanto mai politico, Wiseman sembri trovare il controcampo bianco, cristiano e medio borghese della conflittualità di quartiere raccontata, per esempio, da Roberto Minervini. Così come Errol Morris in American Dharma (il film intervista a Steve Bannon, ideologo dell’estrema destra americana e responsabile della vittoriosa campagna elettorale di Trump), il cinema si interroga e si fa strumento di comprensione dei cambiamenti nella società U.S.A. probabilmente molto più di quanto abbia potuto messa in esame la politica liberal dopo la disfatta del 2016, provando a tessere nuovamente i fili di un rapporto ormai lacerato tra le grandi metropoli e le zone rurali, i centri finanziari e i luoghi dove ancora il lavoro manuale è fonte di reddito.
È in questo senso che appare più grande la novità messa in campo da Wiseman in Monrovia, Indiana: più che un capitolo ulteriore di una “serie” dedicata all’America contemporanea, è un vero e proprio abbandono dei “luoghi” che ci ha abituato a conoscere (recentemente biblioteche, musei, teatri) per costruire il mosaico umano di una società partendo dal suo insieme, la comunità. Anche all’età di 88 anni un regista, in questo caso uno dei più grandi documentaristi viventi, può abbandonare la sua zona di comfort, ritrovare se stesso nell’altro come nella commovente scena finale del funerale di un’anziana signora: dalla compassione per il lutto di un estraneo si può ricostruire un rapporto, un senso collettivo di appartenenza non solo ad una cittadina di provincia o ad un Paese, ma all’umanità intera. [Alberto Diana]
CONDANNATA ALLA DIVERSITÀ
Tra le varie ipotesi sull’origine del nome di Deva, una cittadina rumena di 60 mila abitanti sospesa tra un’atmosfera rurale e i nuovi impianti industriali, c’è l’idea che derivi dalla lingua slava, dove la parola “Deva “o “Devin” significa “ragazza”, “fanciulla”. Magari è proprio su questa etimologia che Petra Szocs si è basata per la scelta della location del suo esordio: Deva, appunto, character-study realizzato all’interno di da Biennale College e incentrato su Kato, un’adolescente albina dallo sguardo strabico e gli occhi di ghiaccio che, orfana e costretta in un istituto, fatica a farsi accettare dai coetanei.
Le difficoltà di Kato nell’integrarsi derivano sia dal suo aspetto demoniaco, sia dalle voci che girano sul suo conto, e che la bambina stessa alimenta senza pudore: Kato fa credere ai suoi compagni di essere nata in un cimitero, di essere capace di lanciare maledizioni e, soprattutto, di aver ucciso un ragazzino che la infastidiva, ma se da un lato questa fama le dà potere e la protegge dai suoi coetanei, dall’altro la isola. L’occasione per alleviare la solitudine arriva insieme alla nuova volontaria Bogi, una giovane donna che, come Kato, ha subito le beffe dei suoi coetanei a causa di un sorriso eccessivamente largo. Le due si trovano immediatamente in intimità e Bogi ha una buona influenza anche sul resto dei bambini, tanto che questi arrivano a sperare che resti con loro nonostante l’impiego temporaneo e, per ottenere ciò, decidono di “maledire” l’altra sorvegliante Anna, facendo lanciare a Kato una maledizione contro di lei. A quel punto, ad Anna iniziano a capitare strani incidenti che i bambini osservano con sardonico divertimento.
È lo spunto narrativo più interessante del film, ma ha l’unica pecca di arrivare solamente a metà del suo svolgimento, facendo scontare un racconto che si concede troppe pause e che viaggia per troppo tempo sottoritmo. Deva sarebbe altrimenti un’eccellente opera prima, girata in uno stile naturalistico eppure, in linea con uno dei suoi temi, sospeso in un’atmosfera rarefatta dai contorni sfumati che sembra sciogliersi in una vaga impressione di magia, in cui l’azzurro è uno dei colori ricorrenti e l’immagine parte dal formato 4:3 per poi aprirsi progressivamente mentre Kato allarga i suoi orizzonti (uno stratagemma utilizzato anche in Orecchie, altro film targato Biennale College), quando scappa dall’orfanotrofio per raggiungere Anna, la sorvegliante malata.
Un film suggestivo e imperfetto, capace di mettere in scena una protagonista condannata alla diversità, ma capace di servirsene per sopravvivere. [Claudio Balboni]