C’era grande attesa per il nuovo film del regista ungherese László Nemes che, dopo Il figlio di Saul, esordio capace di dare una risposta alla non rappresentabilità della Shoah, arriva a Venezia con un’opera complessa, libera e personale, vera cartina tornasole per inquadrare la poetica di un cineasta al suo secondo lavoro e già consacrato alle massime attenzioni. Napszállta (Sunset) è nuovamente un film in costume, ma questa volta l’azione si sposta ai primi anni Dieci del Novecento, nella Budapest simbolo di un’Europa che senza ancora saperlo si stava affacciando sull’imminente tracollo geopolitico del primo conflitto mondiale.
Negli anni che anticipano la disgregazione dell’Impero austro-ungarico e l’ingresso effettivo nel secolo breve, Nemes cala la storia di una donna, la giovane Irisz Leiter, che da Trieste torna alla natia capitale ungherese con la speranza di poter essere assunta nel celebre negozio di cappelli un tempo proprietà dei suoi genitori defunti. A partire dal primo, inatteso rifiuto, il percorso di Irisz tra le luci e le ombre della città diventa caleidoscopio di tensioni sibilline e inevase, che da una parte disvela i sordidi segreti del negozio, e dall’altra abbraccia la scoperta dell’esistenza di un fratello mai conosciuto, pericoloso rivoluzionario in clandestinità, ultimo legame con un passato perduto. Di questo peregrinare concentrico e incessante Irisz è insieme forza motrice e sprovveduta preda, esposta alle brutali convergenze di un fuoricampo (luoghi, eventi, persone) di cui non dovrebbe conoscere nulla, ma che sembrerebbe sapere tutto di lei.
Il film conferma la consapevolezza di un autore che sintetizza nel dominio del piano sequenza, qui spezzato da puntuali tagli di montaggio, l’afflato di una sfida quasi impossibile: raccontare il tumulto di una civiltà alla vigilia del tracollo attraverso una vicenda privatissima e lacunosa, dove però non conta tanto capire cosa sta accadendo e perché, ma abitare la pulsione inconscia della protagonista, la duplicità della sua danza, nell’inerme collisione con il proprio destino. Un’opera in cui strutturalmente molto poco “torna”, una seduta psicanalitica con esplosioni e spargimenti di sangue, che chiede – impresa non semplice – di essere attraversata con la stessa ossessione con cui il regista scolpisce nell’ombra i fiammeggianti primi piani dell’attrice Juli Jakab: Irisz è capace di sguardi svuotati di pensiero, la macchina a mano segue o precede la sua figura dentro uno spazio costruito al millimetro per garantire l’assalto ineluttabile di una vocazione. E dietro al dubbio che il suo futuro non faccia altro che replicare il suo passato, anche la Storia è pronta a ripetersi, in modo ancor più fatale. Napszállta non è il capolavoro che uniforma l’esegesi o il dibattito, ma tra dispersioni e simboli oscuri, le sue immagini infiammano lo schermo. [Marco Longo]
OLTRE LA SELVA OSCURA
Dopo la folgorante scoperta di Les Garçons sauvages di Bertrand Mandico lo scorso anno, la Settimana della Critica – diretta da Giona Nazzaro – non smette di scommettere su un cinema francese fuori dal coro, che non si adegua al realismo borghese, ma si spinge in territori meno battuti dove il mito incontra in maniera imprevedibile la commedia.
Riprendendo gli archetipi delle fiabe, Bêtes Blondes di Alexia Walther e Maxime Matray racconta qualche giornata dello stralunato Fabien (interpretato dal fantasioso Thomas Scimeca), attore comico che ha perduto la memoria alla morte del suo vero amore, ed è ridotto a vagare per una selva oscura, in cerca di qualche tramezzino al salmone che sazi la sua atavica fame. Sarà l’assistere alla cerimonia funebre di un bel ragazzo – morto decapitato in un incidente, e diviso dal suo innamorato respinto dalla famiglia – a spingerlo a passare all’azione, per superare un lutto durato diversi decenni grazie a in un viaggio surreale tra nuove Circi e misteriosi belli addormentati.
Girato in un elegante 1.33:1, che mette in risalto i protagonisti rispetto al paesaggio neutro che attraversano, il film affronta la gravità del tema con estrema grazia, mantenendo una distanza emotiva – data dalla recitazione brechtiana e dalla cura compositiva del quadro – colmata da una progressiva empatia nei confronti del protagonista. Perso nella sua vita sgangherata, bisognoso d’affetto e di supporto, Fabien non ha mai fatto i conti con l’immagine di se stesso intrappolata nella sit-com anni ’90 di cui era protagonista (se ne vedono alcuni passaggi esilaranti). Privato di un’identità nella vita reale, è solo un corpo mosso senza sosta dalle circostanze: in trappola fino a quando non deciderà di farsi attraversare dal dolore degli altri.
La coppia di registi, al loro primo lungometraggio (prodotto da Emmanuel Chaumet, già dietro a Les Gançons sauvages e La bataille de Solferino), si inserisce nella strada di un nuovo cinema francese in cui la libertà formale si sposa con un universo queer, attraverso il quale raccontare una fluidità di sentimenti che non corrisponde all’intercambiabilità dei corpi. Uomini o gatti, tutti alla ricerca dell’amore. [Daniela Persico]
GIOCO DI SPECCHI
“Sarà un film da amare o da odiare”: così Orson Welles parlava del suo The Other Side of the Wind (la battuta si può ascoltare nel documentario “istituzionale” They’ll Love Me When I’m Dead di Morgan Neville). E così è stato: la ricostruzione di The Other Side of the Wind, finanziata – e, dal prossimo novembre, anche distribuita – da Netflix, non ammette mezze misure.
Da una parte coloro che, forse sedotti dal mito dell’Autore, hanno subito gridato senza esitazione al capolavoro; altri – vuoi per spirito di contrarietà, vuoi insospettiti da un clamore che sa tanto di “caso” costruito ad hoc – si sono dimostrati piuttosto freddi se non addirittura ostili. Insomma, indipendentemente dai giudizi, se c’è una cosa di cui vale la pena rallegrarsi, è che Welles riesca ancora a dividere anche un pubblico pronto a tutto come quello della Mostra. Gli era riuscito da vivo (proprio qui a Venezia si consumarono le cadute di Macbeth nel 1948 e di Otello, annunciato ma non presentato, nel 1951), e gli riesce anche post mortem, con un’opera-monstre che incominciò a girare nell’estate nel 1970 e che non riuscì mai a completare, travolto dalla cronica mancanza di finanziamenti e da complesse vicende legali. Quella che è stata presentata qui al Lido, supervisionata da Peter Bogdanovich e montata da Bob Murawski a partire da 100 ore di girato e da un rough cut di una quarantina di minuti realizzato dallo stesso Welles, è pertanto solo una delle versioni possibili del film, probabilmente molto vicina a quella che avrebbe potuto essere la versione definitiva (è sufficiente un confronto con la sceneggiatura pubblicata nel 2005 dal Festival di Locarno per rendersene conto), ma certo non il “director’s cut”.
Un’incompiutezza che ripropone questioni filologiche sempre attuali e troppo spesso trascurate quando si parla di cinema: quali sono i criteri con cui è stata condotta la ricostruzione del film? La forma-lungometraggio è la più corretta per raccogliere una tale e magmatica quantità di girato? È effettivamente possibile presentare pubblicamente un film incompiuto esattamente come si stampa l’edizione critica di un romanzo?
Il fatto che ad approntare questa versione di The Other Side of the Wind sia proprio quel Bogdanovich che nel film recita la parte di Brooks Otterlake, ovvero l’allievo prediletto destinato a spodestare John Huston/Jake Hannaford, rende ancora più pirandelliano il gioco di specchi fra realtà e finzione messo a punto da Welles con sorprendente preveggenza: un film incompiuto che ruota attorno a un film incompiuto dallo stesso titolo (The Other Side of the Wind, appunto), messo insieme (nella finzione cinematografica come nella realtà) a partire da una molteplicità di fonti filmate e registrate. Un sistema mediale onnipresente e cannibalico che ricorda fin troppo, al netto dell’assenza di smartphone, il mondo del 2018.
Infine, The Other Side of the Wind è quasi un esempio da manuale di “stile tardo”, frutto di una mente creativa che, giunta alle soglie della terza età e pungolata dall’incombere della morte, si è fatta ancora più fervida e imprevedibile che in gioventù. Questo “kolossal sperimentale”, che dialoga con le punte più estreme del “nuovo cinema” emerso a partire dagli anni ’60 (da Antonioni a Morrisey, dalla Nouvelle Vague a Easy Rider), è anche un film dichiaratamente testamentario, il canto funebre sulla morte di una certa idea di cinema: quella della Hollywood classica e dei tough guys alla Ford, incalzati, esattamente come si vede nel film, da orde di movie freaks. Ed è solo l’ennesima ironia del destino che un film del genere sia stato portato a termine e distribuito da quella che oggi è la piattaforma on demand più vasta del panorama mediale. Da qualche parte, forse, Welles starà ridendo. [Gabriele Gimmelli]