I have wished a bird would fly away, And not sing by my house all day;
Have clapped my hands at him from the door When it seemed as if I could bear no more.
The fault must partly have been in me. The bird was not to blame for his key.
And of course there must be something wrong
In wanting to silence any song.
(A Minor Bird, Robert Frost)
In un folto bosco si propaga la voce di un soave usignolo. Clare, giovane detenuta irlandese, tiene tra le braccia il proprio bambino a cui canta con dolcezza una nenia, mentre raggiunge le cucine in cui è impiegata per scontare la propria pena. Questa Madonna con bambino, rassicurante e materna, magistralmente incarnata dalla luminosa Aisling Franciosi, si trasfigura, in un rapido e secco stacco di montaggio nel suo opposto quando l’affilato coltello che stringe tra le mani appare sullo schermo. Grazia e violenza, “femminilità” e “mascolinità” vengono sintetizzati nel paradossale incipit ponendoci con risolutezza la prima domanda: quanto il nostro immaginario, strutturato da secoli di cultura visiva derivante da una società patriarcale, è preparato a un ribaltamento di campo?
In The Nightingale di Jennifer Kent, rape and ravenge ambientato nell’Australia dell’Ottocento in cui i ruoli di genere sono impietosamente rovesciati, seguiamo la furia indomabile della protagonista a cui un ambizioso e crudele ufficiale inglese (il sex symbol Sam Claflin, protagonista di diversi blockbuster campioni incasso) ha tolto tutto ciò che aveva al primo tentativo di emancipazione: un figlio neonato, un marito rispettoso e ogni dignità, stuprandola ripetutamente. Affiancata nel suo percorso da un nativo interpretato dell’attore indigeno Baykali Ganambarr (vincitore del Premio Mastroianni), la protagonista diventa parte di una bizzarra coppia intenta a compiere il fantomatico viaggio dell’Eroe.
La seconda opera della Kent è consapevolmente simbolica e stilizzata, in una anti-narrazione che preferisce accostare al discorso razionale sull’oppressione delle minoranze (Logos) la nudità della voce (Mythos). L’abbacinato percorso di rinascita prima di giungere alla Civiltà, raffigurata attraverso uomini in uniforme che si preparano alla guerra, nasce dall’incontro degli oppressi. Il canto dell’usignolo (nightingale), simbolo della grazia e dell’alba, e quello del merlo (black bird), segno di un potere sciamanico e naturale tenuto in schiavitù, convergono lungo il cammino. Nella loro naiveté, Clare e Billy sembrano essere gli unici capaci di traghettare – attraverso l’intersezionalità della loro lotta – l’odio di un immaginario violento e maschile verso altre fasi.
Gli spostamenti tellurici mondiali provocati dai movimenti fisiologicamente ambigui del Me Too, del Too White e dei loro derivati innervano il film, che oscilla tra la dimensione horror e il pamphlet politico. Come non leggerlo onestamente animato dallo spirito del tempo, riducendolo a mero prodotto di “buona” o “cattiva” narrazione? Il fastidio fuori e dentro la sala suscitato da The Nightingale ci racconta di un imbarazzo di fronte all’accettazione di un discorso non razionale. Il canto dell’usignolo e del merlo nero, nella loro purezza, sono semplici, diretti, spiazzanti: appartengono ad un mondo differente, oltre il velo di Maya. Quando l’usignolo, ormai libero, canta per il piacere di cantare, ogni logica decade. E possiamo scegliere se ascoltarlo o meno.