Dal 4 all’11 aprile 2018, la Cinémathèque Française di Parigi ha dedicato una retrospettiva completa a Jean Paul Civeyrac, in occasione dell’uscita nelle sale francesi del suo ultimo lungometraggio, Mes provinciales, presentato in anteprima nella sezione Panorama della Berlinale 2018. Poter (ri)scoprire nel suo insieme l’opera di un cineasta poco noto in Italia, ma che ha ormai all’attivo nove lunghi e alcuni corti, apre innanzi tutto alla possibilità di leggere l’ultimo film alla luce dei precedenti e di scoprire così, l’una concatenata all’altra, le tappe di un percorso di elaborazione intellettuale incentrato sui temi del legame e del disamore, del lutto e della melanconia.
Mes provinciales è infatti un racconto di formazione sulle passioni nel loro rapporto con il tempo e con la finitudine, summa della poetica dell’autore lionese. Ne è protagonista Etienne (Andranic Manet) che, come fece Civeyrac stesso, parte da Lione pieno di speranze e promesse per studiare cinema a Parigi VIII (stesso ateneo in cui ora insegna il regista). Lì incontra domande, amori, amicizie, illusioni e disillusioni che lo portano a dubitare di sé, delle proprie capacità e del proprio valore creativo. Nella capitale, il giovane si scopre provinciale, suscettibile di critica e di scacco: intraprende la lavorazione di un film interminabile, studi che forse non condurranno da nessuna parte, trascina all’infinito la scrittura di una sceneggiatura, vive di lavori precari, di amori effimeri, di amicizie che forse sono solo proiezioni dei suoi desideri e delle sue aspettative. Tutto questo dà forma a un racconto profondo e meditativo sul valore delle esperienze al di là dei loro esiti.
La sera del suo arrivo a Parigi, Etienne partecipa a una festa dove sente parlare di un altro studente di cinema, un tipo geniale, provocatorio, controverso: Mathias. Mathias non ha ancora fatto la sua apparizione in carne e ossa sulla scena ma già la sua presenza agisce su Etienne nella forma di ideale verso cui tendere, fantasma di bravura. Quando i due si incontrano, è come se Mathias (Corentin Fila, visto in Quando hai 17 anni di André Téchiné) incarnasse il discorso che lo aveva preannunciato: Etienne è sedotto dalla sua eloquenza sferzante, dalla sua disinvoltura critica e l’amicizia di quest’ultimo diventa un trofeo da conquistare, la sua approvazione si fa metro di misura di ogni atto creativo. Ciò finisce per sortire effetti castranti sul protagonista che non si sente mai all’altezza di quell’Altro che, in realtà, è più presente nella sua testa che nel quotidiano. Se nel cinema di Civeyrac spesso accade che i vivi vedano i morti e i fantasmi si sostanzino, Mathias è invece un personaggio che scompare, che si manifesta più che altro nell’assenza, una traccia, una scia. Mes provinciales ricava un posto privilegiato a due figure con cui si confronta Etienne, quella di Mathias, per l’appunto, e quella dell’attivista Annabelle (Sophie Verbeeck), amore impossibile, che diffida dell’estetica ma si arrende di fronte a Il colore del melograno di Sergei Parajanov. Mathias e Annabelle rappresentano il dissidio tra contemplazione e decisione, tra arte e politica, tra chi crede che anche il cinema possa essere politico e chi ritiene che la politica esiga solo interventi materiali. Il confronto che Etienne intrattiene con i due ha molto a che vedere con i sogni o le paure che il ragazzo proietta su di loro. Sono relazioni triangolate dall’ideale, nutrite di immaginario, mediate dal cinema, dalla musica, dalla letteratura e in generale dal “discorso”, come dimostra la scena in cui i tre si ritrovano assieme a vedere un film di Marlen Khutsiev e la pioggia che cade nello schermo riempie la stanza del suo fruscio propizio alle intimità; tanto basta perché si senta di essere agli albori di una grande avventura sentimentale.
Mes provinciales parla dunque del rapporto tra vita e cinema, di come l’immaginazione possa cambiare le nostre azioni ma anche di come a volte immaginare rischi di essere l’unica azione che siamo capaci di compiere. Civeyrac compone i suoi film come partiture musicali, per di più accompagnate da colonne sonore che apportano un contributo fondamentale, come nel caso di Bach, che in Mes provinciales concorre con il bianco e nero delle immagini a esprimere purezza e complessità. Ma oltre alla musica c’è la letteratura: Novalis, Nerval, Pascal, dalle cui Provinciales prende ispirazione il titolo del film. Laddove Pascal interveniva nel dibattito tra giansenisti e gesuiti a proposito di verità e menzogna, anche questo film tratta del nesso tra ciò che diciamo e ciò che facciamo, di fedeltà e tradimento nelle relazioni e con se stessi, per ragionare sullo scarto tra ciò che desideravamo essere e ciò che poi riusciamo a diventare, tra il valore che ci riconoscono gli altri e quello che noi siamo in grado di riconoscere a noi stessi. Etienne è un personaggio à la Flaubert o à la Balzac, che cerca la verità ma è destinato al fallimento.
I suoi dolori e la sua disillusione al cospetto dell’Ideale sono analoghi a quelli che prova Raoul (Renaud Bécard) in Le doux amour des hommes (2002), un film che ha diversi punti di contatto con Mes provinciales, a partire dalle conquiste seriali del protagonista e dalle sue aspirazioni intellettuali. Il film è un adattamento libero del libro di Jean de Tinan, Penses-tu réussir! (1897) ma attinge anche da altri testi dello stesso autore tra cui Un document sur l’impuissance d’aimer (1894), Noctambulismes (1899) e la corrispondenza con André Lebey. Le doux amour des hommes è incentrato sulla figura di un giovane scrittore che progetta una rivista con alcuni amici e inanella amanti fino all’incontro con Jeanne (Claire Perot), una ragazza tossicodipendente di cui si sente per la prima volta innamorato. Ma il sentimento è fragile e Raoul ne avverte la fine ancor prima che Jeanne muoia di consunzione abbandonandolo alle sue vecchie abitudini. Civeyrac riattualizza il dandysmo decadentista di Jean de Tinan e ne risalta la plumbea poesia scegliendo Der geigende eremit del tardo-romantico Max Reger come colonna sonora del film. L’ombra del fallimento si allunga su qualsiasi impresa di Raoul, soggetto dissoluto e in dissoluzione che incarna l’incapacità di scegliere, di amare e la melanconia a ciò connessa.
Come teorizza Freud in Lutto e melancolia, la melanconia (o melancolia) presenta quasi tutte le manifestazioni del lutto – depressione, perdita d’interesse per il mondo esterno, incapacità di amare – tranne l’insoddisfazione morale che l’Io dimostra per se stesso, che chiama “impoverimento dell’Io su vasta scala”. A differenza del lutto, la perdita di cui soffre il melanconico non concerne l’oggetto bensì l’immagine ideale che il soggetto aveva dell’oggetto. Liberata dal disamoramento, la libido si sposta dunque sull’Io che stabilisce un’identificazione con l’oggetto abbandonato: “In questo modo la perdita oggettuale si è trasformata in una perdita dell’Io e il conflitto tra l’Io e la persona amata in una scissione tra l’attività critica dell’Io e l’Io alterato dall’identificazione”. Raoul vorrebbe innamorarsi ma non ci riesce e compensa l’insoddisfazione con un ardore erotico che fa curiosamente eco alle antiche concezioni fisiologiche sui vizi di chi possiede in eccesso quella bile nera che poi sarà lo spleen baudelairiano.
Seduttore con Il primo amore di Leopardi sul comò, Raoul trova ogni incontro concreto deludente rispetto alle sue astrazioni. In una sequenza iniziale del film, il ragazzo percepisce qualcuno per strada e il suo sguardo si perde dietro alla figura che noi però non percepiamo. Nella scena successiva racconta impensierito agli amici (tra cui Maxime, interpretato da Serge Bozon) di essere “mélancholique” per aver creduto di vedere Mariette, suo primo amore. Qualche tempo dopo, Raoul incontra per caso Mariette, i due si scambiano informazioni sulle rispettive vite e si intuisce una distanza che è forse stata all’origine della loro rottura: “tu scrivi sempre?” “Sì. E tu fai sempre la contabile?” “Sì”. È forse questa discrepanza tra arte e contabilità che ha determinato la disillusione di Raoul condannandolo per sempre all’inibizione sentimentale? Nel seguito del dialogo, l’uomo si stupisce: “Dopo tutto quello che abbiamo passato non dovremmo sentire tra noi qualcosa di profondo?” e propone alla donna di provare ad abbracciarsi. Quando i due si staccano, lui dice di continuare a non provare nulla e lo stesso dice lei sul cui volto, però, sembra scriversi un turbamento, forse la reminiscenza di una passione, forse l’insofferenza verso chi si è rivelato incapace di cambiare e le attribuisce un’insensibilità a lei estranea. Raoul sa provare dolore soltanto per se stesso e neppure la morte di Jeanne servirà a mutarlo. Quando dopo una notte di disperazione alcolica l’alba lo sveglia in un parco alla periferia di Parigi, il taxi che lo raccoglie per portarlo a casa è guidato da una giovane autista il cui sguardo malizioso prelude a un eterno ritorno.
Il sentimento che permea tutta l’opera di Civeyrac è quello del tempo perduto, della caducità dell’amore che in più di un film si esprime con un movimento di macchina che dall’amplesso si muove a inquadrare un bouquet di fiori destinati a marcire. Il bel volto della tristezza – per citare il titolo di un cortometraggio in cui il regista racconta l’innamoramento tra Orfeo ed Euridice – è quello dell’incompiutezza, della separatezza dagli altri e dal mondo e del limite che lascia disperati e perennemente insoddisfatti. In Les solitaires (2000), che ritrae il legame fraterno tra Pierre (Jean-Claude Montheil), in lutto per la perdita di Madelaine (Mireille Roussel) e Jean-Baptiste (Philippe Garziano), seduttore incallito che ha perso il lavoro e tradito la moglie Eva (Margot Abascal), quando quest’ultima lo cerca e i due tornano insieme, lei si accorge di essere diventata incapace di provare amore. Se tra Eva e Jean-Baptiste il sentimento è ormai esaurito, quello tra Pierre e Madelaine è perennizzato dalla morte. La donna gli appare in sogno impedendo all’uomo di vivere in modo partecipe la quotidianità diurna e di ricambiare l’affetto di Alice (Lucia Sanchez), l’amica devota che lo vorrebbe come amante.
La lontananza, l’inaccessibilità, la tensione verso qualcosa che non si ha e si fallisce a ottenere sono temi che accolgono anche connotazioni sociali, come in Mes provinciales in cui Etienne viene preso in simpatia da un docente che dice di credere nel suo valore ma che forse ha solo un debole per i proletari e così facendo lo rispedisce alla marginalità da cui proviene. Il progetto di “écrire les classes sociales avec le charme du romanesque” (intervista radiofonica su France Musique del 30 dicembre 2014) Civeyrac lo ha compiuto con Mon Amie Victoria (2014) liberamente tratto dal racconto Victoria e gli Staveneys di Doris Lessing. Il film, la cui lavorazione laboriosa è ricostruita dallo stesso autore in un bellissimo articolo che ne riporta il soggetto originale [“A propos de Mon amie Victoria (2011-2014)” su Trafic, 91, pp. 23-30], racconta l’amara vittoria di una giovane di origini modeste (Guslagie Malanda) che dalla notte passata con un giovane borghese, all’insaputa di questi, ha una figlia a cui offre ciò che lei non ha potuto avere. Il melodramma sociale era già stato sperimentato nel corto Malika s’est envolée (2008), approccio molto personale al racconto di un personaggio sans-papier.
Questi “racconti d’amore per l’oggi”, come recita il sottotitolo di Fantômes (2001), sono però sempre racconti di fantasmi, in cui gli affetti perduti nella realtà ritornano in forma di sogno, di allucinazione, di spettro o addirittura in un altro corpo, come nel bergmaniano A travers la forêt (2005), storia di tre sorelle tra cui Armelle (Camille Berthomier) che non si rassegna alla morte di Renaud (Aurélien Wiik) il quale prima le appare come fosse reale poi, tramite una medium, sembra reincarnarsi in Hyppolyte. Alla fine, la ragazza troverà anche lei la strada dell’aldilà nel fitto degli alberi. “Reviens”, invoca Mouche (Dina Ferreira) in Fantômes e quando Bruno (Olivier Boreel) ritorna nella notte, lei lo lega a sé con una corda finendo inghiottita in un cortocircuito tra mondo dei vivi e mondo dei morti in cui chi è amato ritorna, chi non sa amare scompare e chi teme di scomparire si rivolge a una prostituta miracolosa. L’arbitrarietà del trapasso getta i vivi nello sconforto: “Prima vivevamo senza pensieri. Con queste scomparse è come se ci rendessimo conto di non saper amare, di non saper vivere. Come possiamo fare? Come bisogna vivere?”.
I personaggi di Civeyrac sono creature saturnine, nate sotto il segno del “fulvo pianeta, caro ai negromanti” (Verlaine) che vanifica ogni sforzo della Ragione, rende fervida l’Immaginazione e incenerisce l’Ideale. Coerentemente, il cinema di Civeyrac è un cinema di dissolvenze, di ambientazioni crepuscolari e di cieli notturni solcati da lune e pianeti misteriosamente influenti sulle vite dei personaggi. L’occulto o l’astrologia non fanno parte dell’universo di Civeyrac ma tra i riferimenti letterari rintracciabili nei suoi film c’è Fernando Pessoa che nelle Pagine esoteriche, affermava: “è la Luna a trasformare in fatti le buone o le cattive promesse dei pianeti” e “La congiunzione della Luna con Saturno costituisce uno dei grandi problemi dell’astrologia seria. Entrambi i pianeti sono definiti freddi, ma la loro natura è radicalmente opposta, sicché il male che si possono fare a vicenda contiene elementi di elisione e neutralizzazione reciproca. Non dimentichiamoci che Saturno è, a un tempo, il pianeta della Tristezza, del Destino, e […] la congiunzione con la Luna, pianeta dell’Immaginazione […] ha quindi un esito certo: stendere sulla vita dei nativi un manto di desolazione, di timidezza e di fondo onirico e accidioso”.
Prima di riuscire a raggiungere il suo amato nell’oltretomba, Mouche recita in portoghese un verso del Passaggio delle ore di Alvaro de Campos alias Fernando Pessoa, una poesia che esprime tutta la difficoltà di chi non capisce se la vita “è poco o è troppo”. Il cinema di Civeyrac esprime dal punto di vista formale questa stessa tensione e la sintetizza, tra le altre, nell’immagine della finestra, sorta di inquadratura nell’inquadratura. La finestra, “forma che d[à] misura all’esterno troppo forte” (Rilke), circoscrive l’esistente ma suggerisce anche il brivido dell’infinito e delle vite possibili.
Dalla finestra penetra negli interni l’oscurità dei sonni agitati (Les solitaires con un gioco ironico di audio sui titoli di testa) ma anche l’alba dei tanti risvegli di una coppia che fa l’amore con cui spesso si aprono i film dell’autore francese (Ni d’Eve, ni d’Adam, A travers la forêt, Le doux amour des hommes…). Nella truffautiana sequenza di apertura di Ni d’Eve, ni d’Adam (1997), lungometraggio d’esordio di Civeyrac, dalla finestra in alto a destra dello schermo, l’esterno illuminato con le gambe dei bambini che corrono e giocano penetra nella stanza buia in cui si sono rifugiati i due giovani protagonisti (Morgane Hainaux e Guillaume Verdier) dalla vita tutt’altro che spensierata e destinati a una tragica perdita dell’innocenza. C’è una vita fuori, alla luce, e una vita dentro la stanza buia che a volte comunicano, altre no. Dalla finestra lasciata aperta per dare sempre una possibilità di irrompere agli eventi, la giovane immigrata Malika (Mounia Raoui) si darà la morte nel cortometraggio Malika s’est envolée. Anche Priscilla (Léa Tissier), una delle due adolescenti protagoniste di Des filles en noir (2010) presentato alla Quinzaine des Réalisateurs, morirà gettandosi dalla finestra dopo aver assistito in comunicazione telefonica con l’amica a un’alba talmente potente da darle il coraggio di realizzare il loro piano suicida. E con una veduta sui tetti di Parigi, quelli su cui si è gettato Mathias ma anche su cui aleggiano le aspirazioni dei tanti provinciali che giungono nella capitale, si chiude con poetica amarezza Mes provinciales.
Durante un incontro dell’aprile scorso con il pubblico della Cinémathèque, l’autore ha sottolineato come il cinema, attraverso l’inquadratura, parcellizza, segmenta la realtà permettendo di vedere quel “troppo” che altrimenti non coglieremmo, di accedere a un esistente che eccede la nostra capacita di comprensione. Questo è tanto più vero quando il film è girato in cinemascope come Des filles en noir, Mes provinciales o Mon amie Victoria, per abbracciare quanto più possibile, anche la geografia di un volto. In questo senso, si potrebbe dire che il cinema è una compensazione della vita ma non nel senso della consolazione bensì della possibilità di osservare dal di fuori le cose che vivendo non afferriamo. L’esistenza di uno scarto chiaro tra il dentro e il fuori dallo schermo è importante nella poetica di un cineasta che ha definito ‘lirico’ il proprio linguaggio, ma di un lirismo secco, asciutto, che non vincola lo spettatore con le catene del pathos concedendogli un margine di distacco per pensare liberamente e aderire o meno a quanto vede. E difatti, anche i personaggi sono spesso concepiti in modo tale da non essere mai completamente seducenti. Proprio come nel caso dell’insensibile Raoul di Le doux amour des hommes oppure di Noémie (Elise Lhomeau al suo primo ruolo, prima di Holy Motors) che in Des filles en noir, storia di due amiche aspiranti suicide, è quella che sopravvive e che anzi usa l’intenzione di darsi la morte come un ricatto capriccioso, come una forma di spettacolo e di provocazione di cui fa le spese l’amica del cuore.
Jean Paul Civeyrac non è solo un cineasta ma un melomane, un intellettuale e un insegnante. È autore di Ecrit entre les jours, una raccolta di scritti su cinema e musica, e di Rose pourquoi, un saggio sul cinema a partire da un’esperienza di visione di Rose Hobart in una scena di Liliom di Frank Borzage. Ha insegnato a La Fémis, alla scuola di arte drammatica Cours Florent e all’Università di Paris VIII. La recitazione e gli attori sono una componente fondamentale del suo cinema anche se è raro che lavori con artisti molto noti. Fa eccezione Toutes ces belles promesses (2003) suo film meno crepuscolare, benché tratti anch’esso di lutto e di abbandono, in cui è protagonista Jeanne Balibar insieme a Bulle Ogier. Solitamente ama lavorare con non attori o con esordienti come l’attraente Renaud Bécard (Le doux amour des hommes e Toutes ces belles promesses, poi, dopo qualche prova teatrale, purtroppo scomparso dalla circolazione), o come Guillaume Verdier che ha iniziato con lui da bambino e ha partecipato a quasi tutte le sue pellicole lavorando nel frattempo anche con altri autori tra cui Serge Bozon. Quest’ultimo ha affidato a Verdier il ruolo principale in una delle sue prime prove da regista, Mods (2002), e a sua volta recita in Le doux amour des hommes e in Fantômes. Nei primi film (da Ni d’Eve, ni d’Adam a A travers la forêt) ci sono presenze che ritornano, anche in piccoli ruoli: Odile Grosset-Grange, Armelle Legrand, Vanessa Le Reste; e in Toutes ces belles promesses appaiono brevemente anche Eva Truffaut e il regista e attore Pierre Léon. Nella factory che realizza i film di Civeyrac (quasi tutti prodotti da Les films du Pelléas), la sorella di Serge Bozon, l’operatrice Céline Bozon, è una collaboratrice quasi fissa così come Jean-Claude Monthiel che recita in due diversi film, Les solitaires e Fantômes, ma assume talvolta anche il ruolo di co-sceneggiatore e di responsabile del casting. Jean Paul Civeyrac, come Bozon e Léon, fa parte di un gruppo di artisti e intellettuali che si sono formati grazie al magistero di Jean-Claude Biette, regista ancora troppo poco noto in Italia nonché critico dei Cahiers negli anni Sessanta-Settanta e co-fondatore della rivista Trafic con Serge Daney. Nel saggio Qu’est-ce qu’un cinéaste? Biette distingue il cineasta dal metteur en scène, definendolo come colui che non si limita a realizzare bene un film ma che nel farlo investe una grande parte della propria soggettività – non solo come artista-autore ma come individuo che è parte del mondo, della società – e dunque della propria etica. Civeyrac è sicuramente tra questi.
FILMOGRAFIA
Cortometraggi : La vie selon Luc (1991); Tristesse beau visage (2004) ; Malika s’est envolée (2008)
Lungometraggi :
Ni d’Ève, ni d’Adam (1997)
Les Solitaires (2000)
Fantômes (2001)
Le doux amour des hommes (2002) tratto dall’opera di Jean de Tinan
Toutes ces belles promesses (2003) tratto dal libro Hymnes à l’amour di Anne Wiazemsky
À travers la forêt (2005)
Des filles en noir (2010)
Mon Amie Victoria (2014) tratto dal racconto Victoria e gli Staveneys di Doris Lessing
Mes provinciales (2017)